E’ ufficiale: il tanto contestato gay pride 2005, in programma a Gerusalemme in agosto, non ci sarà. ‘ stato annullato. Il motivo? ‘infelice collocazione della data. ‘evento, infatti, che era riuscito nel miracolo di unire in un unico fronte ‘opposizione ebrei, cristiani e mussulmani, era stato fissato per il prossimo 18 agosto, in coincidenza con ‘annunciato ritiro delle truppe israeliane da Gaza. El-Ad, direttore esecutivo del centro gay lesbico israeliano, in un primo momento si era strenuamente opposto ad ogni annullamento. Ma poi, insieme agli attivisti, si è dovuto arrendere: la polizia non avrebbe mai rilasciato i permessi necessari per svolgere la manifestazione in concomitanza con il ritiro dalla cittadina della Cisgiordania.
Naturalmente, appena ufficializzata la soppressione, sono scoppiate le polemiche. In una strano connubio, i religiosi ultraortodossi – contenti di impedire nella Città Santa una manifestazione irrispettosa della religione ebraica – hanno fatto fronte comune anti gay pride con gli onnipresenti sondaggi di opinione, le cui rilevazioni non lascerebbero dubbi, nel senso che il più benevolo darebbe un solo cittadino di Gerusalemme su quattro favorevole alla kermesse, mentre quello più orientato si spinge addirittura a indicare gli oppositori nella cifra bulgara del 96% degli interpellati.
Ma si possono far dipendere i diritti delle minoranze dai sondaggi? No di certo. Anche perché, sempre i sondaggi, in realtà scoraggiavano gli omo italiani dal’organizzare un gay pride nella straconservatrice Bari. E invece, ancora oggi, a distanza di due anni dalla manifestazione, i baresi la ricordano come uno degli eventi cittadini più friendly degli ultimi decenni. Ovvio: Bari non è Gerusalemme, eppure anche allora il marketing più «accademico» non percepì che la partecipazione di intere famigliole alle spettacolari sfilate «colorate» da viados brasiliani, non faceva che anticipare ‘onda lunga della vittoria alle regionali del gay dichiarato Nichi Vendola.
Tornando invece alla kermesse di Gerusalemme, in realtà ‘appoggio era arrivato perfino da Ehud Bandel, rabbino capo di una corrente ortodossa del giudaismo. E dopo di lui, anche se più scontato, da David Lazar, uno dei primi rabbini al mondo a celebrare matrimoni gay, e da Amy Klein, della corrente «ricostruzionista» (fondata dal rabbino Mordecai Menahem Kaplan originariamente come scisma del movimento conservatore, ma oggi più vicino alla Riforma).
Di più. Anche il più influente quotidiano israeliano, Yediot Aharonot, era sceso in campo nettamente a favore del’evento. E per motivi molto «commerciali» e ‘immagine. I gay, infatti (secondo il Jewish Bulletin news, in Israele ammonterebbero a circa il 10% della popolazione), avrebbero proiettato la santa Gerusalemme nel’empireo delle grandi capitali internazionali, da Parigi a Roma a Londra, liberando ‘universalismo ebraico dalla cappa tri-religiosa che ne frena la crescita spirituale, culturale ed economica. «Anche la Gerusalemme terrena ha il diritto di esistere», urlò il quotidiano. Morale: che il ritiro da Gaza sia una scusa bella e buona, lo ammette tra le righe pure Al Jazeera che, dandone notizia, insinua come la stessa evacuazione dalla Cisgiordania forse nemmeno avverrà.
Eppure, a Israele i gay servono. Al’esercito – come testimonia il bellissimo film Yossi e Jagger – per cementare relazioni fra soldati. A città come Tel Aviv perché rappresentano un motore del’economia. E, più in generale, alle istituzioni perché consentono ai palestinesi omo di rifugiarsi in Israele, sottraendoli così alla poco simpatica fine che farebbero nei Territori. Insomma i gay sono strategici, ma evidentemente non abbastanza da rompere ‘asfittico clima sociale di una città culturalmente involuta da un interminabile conflitto. Peccato.