“To a happier year”

  

‘Ad un anno più felice’ è l’epigrafe che figura all’inizio del libro che definì gli ultimi anni della mia adolescenza, e che probabilmente mi salvò la vita.
Il libro era Maurice, di E.M. Forster. Era il 1990, ed io, Massimo Redaelli, avevo appena cominciato gli studi in Lettere Classiche alla Statale di Milano. Avevo appena incontrato il mio primo ragazzo ed ero profondamente innamorato: Monteverdi, il Simposio di Platone, il far musica insieme ci avevano uniti in un vincolo profondo e nobilissimo.

Verso la metà di gennaio avevo l’influenza, e stavo preparando il mio primo esame di universita’, Latino I.
Il mio ragazzo era venuto a casa mia per aiutarmi a ripassare quelle migliaia di versi di Virgilio, ed il Tacito ‘a prima vista’ che atterriva i candidati. Per caso mia madre notò una certa affezione nei nostri comportamenti e mi chiese se il mio ragazzo fosse gay.
Io non ci pensai un attimo e risposi di sì, e che lo ero pure io. Non era nulla di eccezionale, e non cambiava affatto i miei rapporti con loro.
Il mio ragazzo fu immediatamente invitato ad andarsene, ed i miei cominciarono a rendermi la vita difficile. Non era accettabile che io, figlio di famiglia brianzola cattolica, fossi gay. Mia madre si spinse per fino a dire che non importava cio che facessi in privato, ma nessuno, tanto meno loro, ne voleva sapere.

Chiaramente cosa importava non era la sofferenza che infliggevano negando il fondamentale diritto ad amare del proprio figlio, ma che cosa ne dicessero conoscenti e vicini. Che vergogna! Cose del genere non succedevano a Concorezzo. Le statistiche di Kinsey ovviamente qui non erano ancora arrivate.

Si confidarono con uno svariato numero di sacerdoti e frati, e io mi abbandonai brevemente alla depressione. ‘Caina attende chi a vita ci spense’ (Dante, Inf. V, 107 ) scrissi sul muro della mia camera. Ma nulla cambiava.

Dei miei amici, quelli che conoscevo tramite la mia adolescenza in oratorio — circoli cattolici costituivano una buona parte della mia frequentazione sociale — si dileguarono tutti, eccetto uno. Con altri, amici di liceo e di altri ambienti, eventualmente ho ristabilito contatti.

I genitori del mio ragazzo furono molto più umani ed aperti. Per loro era chiaro che il loro figlio era sempre lo stesso, e mi accolsero con sincero affetto. Non mi dimenticherò mai quando sua madre venne a casa dei miei e fece notare che non c’era nulla di male nella nostra storia. Il tentativo della buona donna ottenne esattamente l’effetto opposto, e i miei tornarono all’attacco con ogni sorta di tormento emozionale.
Mi impedirono di vederlo e mi privarono di ogni privacy.

Finalmente, non ne potei più, e domandai di vedere uno psichiatra.
Mi portarono all’ospedale di Villa Biffi, a Monza. Uno psichiatra mi esaminò e notò che ero perfettamente sano di mente. Quelli che avevano il problema erano i miei, non io. Suggerì che vedessimo una psicologa. Mio padre non volle mai andarci. Io e mia madre ci andammo per un po’, ma a poco serviva: io ero sempre gay e rifiutavo di dichiarare il contrario. Loro ammettevano che lo fossi — al piu’ si trattava di una fase — e tantomeno erano pronti a parlarne.

A lungo andare il clima di ostilità istigato dai miei ebbe un effetto negativo sulla mia relazione. Causa ne era in parte il senso di fatica emozionale e il senso di inadeguatezza che sentivo per il fatto di essere eternamente affranto dall’atteggiamento dei miei, in parte il fatto che non vedevo via d’uscita alla situazione. Nel giugno 1991 dissi ai miei che volevo andare in vacanza per avere tempo di pensare. In realtà volevo solo riposare, e passare del tempo con il mio ragazzo.

Andammo in Grecia per tre settimane, girando da un’isola all’altra finchè arrivammo a Mykonos. Non ne avevo ancora parlato al mio ragazzo, ma nonostante la pace di quei pochi giorni, non credevo che potessimo continuare una volta tornati. Non era giusto sottoporre entrambi a quella pressione.

Durante il nostro soggiorno a Mykonos incontrammo per caso un ragazzo inglese. Non fu un incontro ordinario per quanto mi riguarda, ma ebbe il carattere di una epifania. Mentre la mia relazione con il mio primo ragazzo era moribonda, mi sembrò di vedere una scintilla di speranza in questo ragazzo.

Io ed il mio primo ragazzo tornammo in Italia e ci separammo. A fine agosto convinsi i miei a lasciarmi andare per qualche giorno in Inghilterra a trovare Nick. In brevissimo tempo realizzai che Nick non era una passione passeggiera. Entrambi eravamo assolutamente innamorati e inseparabili e nel giro di pochi giorni decidemmo che dovevamo metterci insieme.

Sin da allora, e con un solo intervallo dovuto al servizio civile, siamo insieme, e quest’anno, il 29 Dicembre prossimo alle quattro del pomeriggio, otto giorni dopo che la nuova legge entrerà in vigore, ci uniremo in partnership quì a Brighton, dove viviamo. I miei sono stati invitati, ma non verranno.

La realizzazione della nostra unione è stata accompagnata da continua stabilità, grazie alla quale siamo entrambi stati in grado di perseguire buone carriere professionali.

Nick ha lavorato per molti anni come consulente ambientale per l’industria dei trasporti, ed io, dopo essermi laureato in musicologia dal King’s College di Londra e aver conseguito un Masters in Musicologia dal Royal Holloway and Bedford New College (Universita’ di Londra) col massimo dei voti, ho insegnato per vari anni, ed mi dedico alla prima edizione delle opere manoscritte di teoria musicale di un intellettuale rinascimentale, Ercole Bottrigari, per Indiana University at Chapel Hill, USA (www.music.indiana.edu/smi)

Dall’inizio di quest’anno abbiamo deciso di passare più tempo insieme, ed abbiamo comprato un negozio a Brighton, dove viviamo, a cinque minuti da casa, dove entrambi lavoriamo.

Perchè darvi tutti questi particolari?

Perchè non ne posso più di leggere su internet le assurdità della dottoressa Atzori & C. (obiettivo chaire – perchè si nascondono dietro ad un
nome collettivo, e che qualifiche hanno?), quando parlano della inerente infelicità della condizione omosessuale, o la dichiarano innaturale paragonandola all’obesità. Ma dov’è la prova scientifica?
L’unica infelicità che ho conosciuto – e che spinge molti perfino al suicidio – è quella causata dalle assurde idee a cui tali personaggi sottoscrivono e che propagandano. Si esaminino la coscienza. Mentre la maggior parte delle persone ragionevoli riconosce come assurdità senza fondamento queste idee, persone più suggestionabili — come erano e sono i miei genitori — possono essere portate a non comprendere la vera e non eclatante natura dell’omosessualità, e ad infliggere i pregiudizi acquisiti agli innocenti.

Per lo meno, questo è quanto in gioventù mi è successo.
Se il raccontare la mia storia può aiutare qualcuno in una simile situazione, lo faccio ben volentieri. Come avviene nel romanzo di Forster, il lieto fine è assolutamente possibile. L’importante è crederci.


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