Audizione del dottor Amedeo Santosuosso, magistrato presso la corte di appello di Milano e docente presso la facoltà di giurispr

  

CAMERA DEI DEPUTATI – XIV LEGISLATURA
Resoconto stenografico della II Commissione permanente (Giustizia)
Seduta del 13 ottobre 2005

Indagine conoscitiva sulle tematiche riguardanti le unioni di fatto ed il patto civile di solidarietà.

Audizione del dottor Amedeo Santosuosso, magistrato presso la corte di appello di Milano e docente presso la facoltà di giurisprudenza del’Università degli studi di Pavia.

(Fonte: www.parlamento.it – BOZZA NON CORRETTA)

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE GAETANO PECORELLA

La seduta comincia alle 14,00.

PRESIDENTE. ‘ordine del giorno reca, nel’ambito del’indagine conoscitiva sulle tematiche riguardanti le unioni di fatto ed il patto civile di solidarietà, ‘audizione del dottor Amedeo Santosuosso, magistrato presso la corte ‘appello di Milano e docente presso la facoltà di giurisprudenza del’Università degli studi di Pavia.
Ringrazio per la partecipazione il dottor Santosuosso, che conosciamo come magistrato e come docente, dal quale ci aspettiamo, su una tematica abbastanza controversa, indicazioni utili per i nostri lavori. Gli do immediatamente la parola.

AMEDEO SANTOSUOSSO, Magistrato presso la corte di appello di Milano e docente presso la facoltà di giurisprudenza del’Università degli studi di Pavia. Desidero innanzitutto ringraziare il presidente e la Commissione per avermi invitato. Mi sono occupato di questi temi nel corso della mia carriera professionale di giudice. Sono stato, infatti, prima giudice presso il tribunale per i minorenni, poi giudice del lavoro e, attualmente, sono giudice presso la corte ‘appello di Milano, in materia civile.
Le considerazioni che farò saranno di due tipi: il primo, di carattere generale, riguarderà il rapporto tra la Costituzione italiana e la Carta dei diritti fondamentali del’Unione Europea; il secondo riguarderà alcuni aspetti di dettaglio della proposta di legge Grillini C. 3296.
È noto che un problema centrale in questa materia riguarda il riferimento al’articolo 29 della Costituzione, che può essere interpretato in due modi. Conosciamo tutti ‘origine storica di questo articolo, per cui tralascerò questo aspetto -, anche se il riferimento alla famiglia come entità naturale va inteso nei suoi termini storici. Le norme della Costituzione, infatti, sono interpretate, per tecnica interpretativa giuridica assolutamente consolidata e condivisa, secondo il loro tenore letterale e le interpretazioni che su di essa sono state date dalla Corte costituzionale, nel’evoluzione del diritto di rango costituzionale.
In proposito, un punto importante è costituito dalla legge di riforma del diritto di famiglia e da tutte le pronunce che vi sono state prima e intorno. Il profilo della famiglia, strutturato ai sensi del’articolo 29 della Costituzione, è una «comunità di liberi ed eguali». Questa è la definizione giuridica assestata a livello costituzionale e dottrinario. Ebbene, se questo è vero – ed è storicamente vero sul piano del diritto – ne deriva che ‘articolo 29 non può essere interpretato come una norma che impone un certo tipo di unione matrimoniale. ‘articolo indica soltanto un particolare impegno della Repubblica italiana nel riconoscere il matrimonio. Se una legge, per ipotesi – parliamo ovviamente per assurdo -, decidesse di abrogare il matrimonio, sarebbe in contrasto con ‘articolo 29 della Costituzione.
Tuttavia, ‘articolo 29 non può essere interpretato come una norma che esclude che lo Stato possa regolare altre forme di unione. Questo è un punto estremamente importante, perché se si interpretasse ‘articolo 29 come una norma che impone esclusivamente quel tipo di unione, questo entrerebbe in conflitto con altre norme della Costituzione stessa. Mi riferisco al’articolo 2, che riguarda il riconoscimento dei diritti fondamentali in tutte le formazioni sociali, e al’articolo 3, che sancisce il principio di eguaglianza e, soprattutto, di non discriminazione. Se, dunque, ‘articolo 29 venisse interpretato come imposizione coattiva porterebbe ad una discriminazione.
Dunque, per concludere la prima parte del discorso, credo che il modo per risolvere questo potenziale conflitto tra ‘articolo 29 e gli articoli 2 e 3 della Costituzione in particolare, ma anche con ‘articolo 13, consista, secondo ‘interpretazione della libertà personale data dai civilisti e dai costituzionalisti negli ultimi 15-20 anni, nel dare prevalenza alle norme di carattere più generale e più ampio.
Pertanto, il principio di libertà e di uguaglianza non potrebbe che prevalere su u’interpretazione restrittiva. Dico questo a prescindere da ogni considerazione di carattere giuridico-politico generale, perché altrimenti la famiglia fondata sul matrimonio diventerebbe u’imposizione statale e questo coinvolgerebbe e implicherebbe una serie di altri principi.
Fatta questa precisazione sul’articolo 29, vi è da dire che, oramai, in Europa stiamo andando verso un modello che, in un modo o nel’altro, somiglia a quello americano. Intendo dire che noi, come italiani, abbiamo e continueremo ad avere – ed è giusto che sia così – la nostra Costituzione nazionale, ma, nello stesso tempo, abbiamo degli strumenti e delle fonti di rango costituzionale di tipo europeo. Mi riferisco, in particolare, alla Carta dei diritti fondamentali del’Unione Europea, proclamata a Nizza nel 2000 e che, per il momento, è stata ancorata al trattato costituzionale e ne sta seguendo le sorti. Si prospetta, tuttavia – è u’evoluzione politica che potrebbe esserci nel prossimo futuro -, la possibilità che la Carta dei diritti venga scorporata dai trattati costituzionali e fatta entrare in vigore autonomamente.
Ebbene, ‘articolo 9 della Carta dei diritti stabilisce che i cittadini europei hanno il diritto di sposarsi e il diritto di costituire una famiglia. È interessante notare come ‘articolo 9 riproduca le seguenti forme: il «diritto di sposarsi», che riecheggia, anche a livello lessicale, il matrimonio tradizionale e il «diritto di costituire una famiglia». Ne parla come di due diritti paralleli che possono coincidere, ma possono anche essere distinti. Chiaramente, la mancanza di qualsiasi riferimento al matrimonio e al’eterosessualità dei componenti di questo nucleo fa sì che ‘articolo 9 della Carta europea abbia un contenuto più ampio del’articolo 29 della Costituzione italiana.
Se, quindi, immaginassimo come distinte entità fisiche le due disposizioni, ‘articolo 9 della Carta europea avrebbe una portata più ampia comprendendo più situazioni al suo interno.
Ora, come si regolano i conflitti tra il livello costituzionale del singolo Stato membro e il livello europeo? È ‘articolo 53 della Carta europea a prevedere il meccanismo di regolazione di tali conflitti. Esso recita testualmente: «Nessuna disposizione della presente Carta deve essere interpretata come limitativa o lesiva dei diritti del’uomo e delle libertà fondamentali riconosciuti […] dal diritto internazionale […] e dalle costituzioni degli Stati membri». Questo significa che la Carta europea può conferire nuovi diritti, ma non può limitare quelli esistenti. Pertanto, nel momento in cui ci si dovesse trovare di fronte ad un conflitto, questo andrà risolto riconoscendo come prevalente la fonte che dà più diritti. Ciò significa che, tra ‘articolo 9 della Carta europea e ‘articolo 29 della Carta costituzionale italiana, prevale il primo.

NITTO FRANCESCO PALMA. Le chiedo scusa: ha citato un articolo che afferma che non può essere interpretato contro…

AMEDEO SANTOSUOSSO, Magistrato presso la corte di appello di Milano e docente presso la facoltà di giurisprudenza del’Università degli studi di Pavia. Sì, ‘articolo 53 della Corte europea. Lo rileggo: «Nessuna disposizione della presente Carta deve essere interpretata come limitativa o lesiva dei diritti del’uomo e delle libertà fondamentali, riconosciuti dalle costituzioni degli stati membri». Questo significa che non si può prendere a pretesto la Carta europea per restringere, nel’ambito nazionale, i diritti che la costituzione dello Stato membro riconosce. Nessuno può utilizzare la Carta europea per trarne una interpretazione limitativa dei diritti e delle libertà fondamentali del’uomo che lo Stato italiano riconosce.

MARCELLA LUCIDI. Però, professor Santosuosso, non vale il contrario.

AMEDEO SANTOSUOSSO, Magistrato presso la corte di appello di Milano e docente presso la facoltà di giurisprudenza del’Università degli studi di Pavia. Non vale il contrario. Questo è un dispositivo giuridico che è presente, ad esempio – con parole diverse, ma il concetto è lo stesso -, nella Convenzione europea sulla biomedicina di Oviedo. Per andare al nocciolo del problema giuridico-politico: nessuno Stato membro accetterebbe di aderire ad una nuova costituzione se per effetto di questa i diritti che ha riconosciuto al suo interno dovessero subire una restrizione.
In quel caso funziona un meccanismo di sicurezza per cui lo strumento sovranazionale prevale nel caso aggiunga qualcosa. Se invece quello sovranazionale introduce delle limitazioni dei diritti, prevale quello nazionale. Fondamentalmente, si tratta di un problema di sovranità, che tende a risolvere i conflitti pratici, anche da un punto di vista politico, in quanto, se si dovessero discutere al’interno di ogni Stato membro tutte le limitazioni che potrebbero derivare dal’applicazione di una carta di livello superiore, sarebbe come riscrivere la costituzione nazionale, finendo per aprire un dibattito a trecentosessanta gradi. Ripeto, si tratta di un meccanismo molto collaudato, che ha dei fondamenti molto solidi.
Il discorso può sembrare astratto ma, a mio avviso, può avere dei risvolti pratici importanti, anche nel breve-medio periodo. Proviamo a pensare, ad esempio, a cosa potrebbe accadere se un cittadino, proveniente da uno Stato dove sono riconosciuti i patti di solidarietà o di convivenza, venisse in Italia e chiedesse un riconoscimento dei quei diritti.
Sappiamo bene, infatti, che al’interno del’Unione Europea devono essere riconosciuti i diritti di libera circolazione e i diritti riconosciuti nei paesi di origine. Non intendo fare alcuna considerazione circa il fatto che ‘Italia è tra i pochissimi paesi che non ha questo tipo di regolamentazione. Dico soltanto che anche se si volesse perpetuare questa situazione, esiste già un problema di raccordo fra la legislazione italiana e quella europea. Potrebbe, infatti, aprirsi un contenzioso basato sulla diretta applicazione del’articolo 9 della Carta europea, che ha un contenuto più ampio di quello previsto dal’articolo 29 della Costituzione italiana.
A questo punto passerei a esaminare alcuni punti, a mio avviso un p’ delicati, relativi alla proposta di legge Grillini C. 3296. Mi riferisco, in primo luogo, al’articolo 7, che titola: «Rifiuto della ricezione o della iscrizione del patto civile di solidarietà». Il comma 1 di detto articolo recita: «’ufficiale dello stato civile che non intenda procedere alla ricezione o alla iscrizione di un patto civile di solidarietà deve motivare per iscritto il rifiuto». Ebbene, non è chiaro se questa sia una forma di obiezione di coscienza. È chiaro che il legislatore ha la facoltà di decidere e di usare i termini che vuole, però, nella nostra esperienza di obiezione di coscienza, chi sceglie questa opzione si assume la responsabilità di dichiararlo.
Questo è un punto molto importante. Non è sufficiente, infatti, che una persona si limiti a dire di non voler rispettare la legge; è chiaro, infatti, che ‘obiezione di coscienza è una deroga autorizzata al’obbligo che tutti abbiamo di rispettarla. Ma, per far scattare il diritto a non rispettare la legge è necessario rilasciare una dichiarazione e non, semplicemente, sostenere che non si intende rispettare la legge. In ques’ultimo caso la ragione potrebbe rimanere misteriosa, poco chiara.
‘altra parte, anche il meccanismo che prevede di ricorso al tribunale, che può ordinare il superamento di questo rifiuto, impartendo ‘ordine al funzionario di registrare il patto, è qualcosa di molto ambiguo. Intendo dire che se si tratta di obiezione di coscienza, questa deve essere rispettata fino a fondo, e non ci può essere alcun tribunale che possa imporre di compiere ‘atto ad una persona che faccia legittimamente obiezione di coscienza. Se invece non si tratta di questo, allora si giustifica ‘intervento del tribunale che può accertare la sussistenza dei requisiti. Ma in questo caso siamo semplicemente in presenza di un funzionario che non compie il suo dovere: si entra nel campo del’omissione di atti di ufficio o di qualcosa del genere.
Su questo punto mi limito, pertanto, a segnalare che, se si intende introdurre una forma di obiezione di coscienza, è giusto che sia posto a carico del’obiettore ‘onere di dichiararla; allo stesso tempo, però, deve essere eliminato il meccanismo che conferisce al tribunale il potere di superare ‘obiezione di coscienza stessa. Se la si riconosce, deve essere rispettata fino in fondo.

PRESIDENTE. Non potrebbe essere, invece, un modo per verificare se, effettivamente, si tratta di obiezione di coscienza? Potrebbe trattarsi di un rifiuto non motivato dal’obiezione di coscienza, ma da ragioni esterne e, in questo caso, il tribunale potrebbe ordinare di compiere ‘atto, proprio perché non ‘è obiezione di coscienza.

AMEDEO SANTOSUOSSO, Magistrato presso la corte di appello di Milano e docente presso la facoltà di giurisprudenza del’Università degli studi di Pavia. Non avevo affrontato questo aspetto per non entrare in dettagli troppo tecnici.
Ricordo che lo stesso problema è sorto, ad esempio, per ‘obiezione di coscienza in ambito militare, dove vi era la possibilità di sindacare, da parte del’autorità giudiziaria, se ‘obiettore fosse una persona che andava in giro armata o avesse precedenti per uso delle armi. Pertanto, è giusto che sia previsto, al fine di verificare la coerenza interna del’obiezione, un meccanismo di controllo, che potrebbe essere anche di tipo giudiziario. Tuttavia, è importante che tale meccanismo giudiziario sia delineato esclusivamente al’interno di questo limite, altrimenti si verrebbe a configurare una procedura con la quale il giudice va a sindacare sulle ragioni di chi ha optato per ‘obiezione di coscienza, cosa che mi ripugnerebbe. Se la legge riconosce ‘obiezione di coscienza, nessuno deve poter dire: «Tu devi per forza…», perché sarebbe una violenza. Ma devono sempre sussistere i requisiti soggettivi, cosa che non sarebbe se – per rimanere al’esempio militare – ‘obiettore al militarismo fosse un pistolero.
Proseguo con questa piccola lista di dettagli per poi mettermi a vostra disposizione per qualsiasi altro chiarimento.
Passando al’articolo 18, questo prevede lo scioglimento del patto di solidarietà e presenta, a mio avviso, una forzatura di tipo formale. Prevede, infatti, che ciascun contraente abbia il diritto di scegliere il patto civile di solidarietà mediante un atto scritto – e fin qui può andare anche bene -, ma mi pare un formalismo eccessivo che questo atto debba essere notificato a mezzo di ufficiale giudiziario. Non so bene qual sia il motivo per il quale sia stata inserita questa previsione, ma mi chiedo se fosse possibile adottare una modalità meno formalistica. Ripeto, non ho chiaro qual è il bene tutelato da questa norma giuridica, per cui mi limito a segnalare il punto.

FRANCESCO BONITO. Probabilmente, è una solennità.

AMEDEO SANTOSUOSSO, Magistrato presso la corte di appello di Milano e docente presso la facoltà di giurisprudenza del’Università degli studi di Pavia. Ma ancorare il tutto al’ufficiale giudiziario mi lascia un p’ perplesso. Nei rapporti interpersonali, nei matrimoni, avviene la separazione ma la gente continua a vivere e ad avere rapporti: in questo è anche il bello della vita, che è fluida.

GIULIANO PISAPIA. Non ci sono quasi più gli ufficiali giudiziari!

AMEDEO SANTOSUOSSO, Magistrato presso la corte di appello di Milano e docente presso la facoltà di giurisprudenza del’Università degli studi di Pavia. Allora il problema sarebbe risolto per estinzione della categoria.
Sul’articolo 19, sottolineo che trovo molto opportuno che sia stato previsto il ricorso al giudice, che, in questo caso, sarebbe quello ordinario e non quello del tribunale per i minorenni. Oggi, invece, sapete che per le coppie sposate tutte le decisioni, sia per quanto riguarda i figli sia per quanto riguarda il patrimonio e quan’altro, sono assunte dal tribunale ordinario, mentre per le coppie non sposate sono assunte dal tribunale per i minorenni. Questo, tuttavia, sarebbe ancora un male relativo. Il problema fondamentale consiste nel fatto che, per le coppie non sposate, se insorgono delle questioni di tipo patrimoniale, le parti devono fare una causa civile ordinaria. Insomma, devono seguire la stessa procedura che si adotta per una lite condominale: attualmente si ignora che alla base ‘è un rapporto di convivenza.
Sul’articolo 19, pertanto, sottolineo ‘importante progresso che si verrebbe a determinare con ‘unificazione della competenza. Sarà lo stesso giudice ad occuparsi sia dei figli delle coppie sposate, sia dei figli – ovviamente riconosciuti – delle coppie non sposate.
Per quanto riguarda ‘articolo 26, ‘è un punto che mi vede, sinceramente, un p’ perplesso e abbastanza critico. Questo articolo titola: «Malattia e decisioni successive alla morte» e il comma 1 così recita: «In mancanza di una diversa volontà manifestata per iscritto ovvero di una procura sanitaria e in presenza di uno stato di incapacità di intendere e di volere, anche temporaneo […], tutte le decisioni relative allo stato di salute e in genere di carattere sanitario, compresa la donazione degli organi, sono adottate dal’altro contraente di un patto civile di solidarietà».
Ora, in primo luogo, una norma del genere non esiste neppure al’interno del matrimonio. Attualmente, infatti – ed è bene conoscere questa differenza -, la volontà espressa dal familiare, nel’ambito della relazione medico-paziente, non è vincolante, mentre in questo caso si dice: «Tutte le decisioni relative allo stato di salute sono adottate dal’altro contraente». Non si tiene conto, secondo me, del fatto che le decisioni sulla salute coinvolgono diritti personalissimi. A mio avviso, stabilire una pura e semplice sostituzione (decide Tizio per Caio, sia pur legato da un patto di solidarietà o di convivenza) è cosa quanto mai pesante, grave. È vero che al’inizio del’articolo si stabilisce che ciò può avvenire «in mancanza di una diversa volontà», ma comprenderete bene che, per una persona legata ad u’altra da un patto di solidarietà, sarebbe difficile dire che sulle questioni di salute, fermo restando un rapporto di buona fede, di correttezza e di collaborazione, preferirebbe che a decidere fosse un terzo (il figlio, la madre, un altro familiare e via dicendo). Indubbiamente, si imporrebbe un onere molto pesante alla persona che, eventualmente, voglia disporre diversamente da come è preordinata la norma.
Dunque, fermo restando che una previsione in questa materia ci vuole, ritengo debba essere di contenuto opposto, che potrebbe essere il seguente: al’interno del patto è possibile che una delle parti, o entrambe, stabilisca che per le decisioni che abbiano rilevanza di carattere sanitario è istituita come procuratrice ‘altra persona; fissando anche, eventualmente, dei vincoli di contenuto. Questo è possibile perché in questo caso non siamo al’interno di una rappresentanza di tipo patrimoniale. Nelle decisioni sanitarie, infatti, giocano tanti profili, anche personali, per cui si può scoprire che una persona, ad esempio, che sarebbe disponibile a rinunciare a trattamenti sanitari aggressivi in alcune condizioni, potrebbe essere interessata ad adottarli in altre.
In merito si potrebbe mutuare il contenuto delle proposte sulle direttive anticipate o living will – alcune delle quali, per quanto ne sappia, sono anche in discussione alla Camera – e tradurlo al’interno del patto.
In buona sostanza, si tratterebbe di prevedere – qualora uno dei contraenti voglia disporre delle cure sanitarie per un eventuale momento in cui non dovesse essere più capace di intendere, di volere e di decidere – la possibilità di dare delle indicazioni in merito, istituendo come procuratore ‘altro contraente. A mio avviso, ciò sarebbe coerente con un possibile sviluppo legislativo, anche di carattere più generale, facendo salvi gli aspetti relazionali al’interno del’aggregato familiare. Sarebbe, infatti, una previsione positiva che eviterebbe ‘imposizione di una specifica procedura per chi volesse spogliare ‘altra parte della possibilità di decidere sulle questioni legate alla salute. Che poi equivarrebbe a dire: «Mi fido di te su tutto, ma non sulle questioni sanitarie», finendo fatalmente per creare attriti, secondo me facilmente evitabili.

PRESIDENTE. Grazie, professor Santosuosso. Do ora la parola ai colleghi, invitandoli a formulare domande sui punti trattati e sulle soluzioni prospettate, più che a ricostruire la vicenda dei patti di solidarietà, come qualche volta capita.

GIULIANO PISAPIA. Professor Santosuosso, grazie per la sua relazione e per il contributo alla discussione che stiamo portando avanti.
Vorrei partire proprio dal’articolo 26. In proposito, uno dei rilievi che talvolta è stato mosso, anche nelle nostre discussioni, riguarda proprio le decisioni nel caso di malattia e nelle situazioni previste dallo stesso articolo 26. Infatti, u’eventuale preminenza nelle decisioni sulle questioni sanitarie da parte di un soggetto che abbia contratto un patto di solidarietà, privilegiando dunque il contraente rispetto al familiare, potrebbe contrastare con ‘articolo 29 della Costituzione. Ques’ultimo, nel momento in cui sancisce i diritti che derivano da una famiglia fondata sul matrimonio, potrebbe dare origine a complicazioni, in caso di divergenza di opinioni, tra i figli e il contraente. Sotto questo profilo, mi sembra che il professor Bilotta abbia fatto una proposta prevedendo che la decisione rimanesse quella del contraente, sentiti però i familiari. Credo che questa sarebbe una soluzione assolutamente contraddittoria perché, in mancanza di un consenso unanime, si finirebbe, comunque, davanti al’autorità giudiziaria.
Vengo alla domanda specifica: una proposta come quella della procura speciale – che ricorda il testamento biologico, se ho ben capito – supererebbe i problemi di costituzionalità, relativamente al fatto di privilegiare le decisioni del contraente del PACS rispetto a quelle dei figli o degli altri familiari, che derivano da una famiglia fondata sul matrimonio?
Vorrei porle anche una seconda domanda: una delle proposte avanzate nel corso del dibattito politico, ma non in Commissione, è stata quella di portare avanti, anziché le proposte di legge che prevedono i PACS, un rafforzamento – non si comprende bene in che maniera – dei contratti personali tra due soggetti che decidono di passare parte o tutta la vita insieme.
Le chiedo, pertanto, di chiarire alla Commissione la distinzione che avrebbe, sul piano del’incidenza sui diritti o sugli interessi legittimi altrui, una legge specifica sui PACS, rispetto alla sottoscrizione di un contratto fra due persone, che non avrebbe, evidentemente, alcuna formalizzazione a livello pubblico. Il tema è molto difficile, anche perché chi ha avanzato questa ipotesi non ‘ha esplicitata in una proposta di legge.

PRESIDENTE. In effetti era una proposta politica.

CIRO FALANGA. Professor Santosuosso, anc’io mi associo ai ringraziamenti per il suo contributo. Lei ha fatto cenno, al’inizio della sua relazione, alla problematica relativa al’efficacia, in Italia, di patti più o meno similari ai PACS stipulati in altri paesi.
Per la verità non ho compreso quale potrebbe essere il risvolto pratico. Mi permetto di segnalare che la materia sarebbe disciplinata dalle regole del diritto internazionale privato. Nel momento in cui si chiedesse ‘efficacia nel nostro paese di un patto stipulato in un paese straniero, essendo contrario al’ordine pubblico, vigerebbe la regola di diritto internazionale privato, che attribuirebbe o meno la possibilità di dare efficacia a quel tipo di patto stipulato al’estero.
Dal momento che lei ha fatto cenno a questa problematica, vorrei avere un chiarimento in merito.

MARCELLA LUCIDI. Professor Santosuosso, mentre riesco a trovare nella nostra Costituzione la soluzione alla rilevanza giuridica delle famiglie di fatto, vedo invece, tra ‘articolo 9 della Carta europea e ‘articolo 29 della Costituzione – per questo prima mi sono permessa di interromperla – una incongruenza formale e sostanziale insieme.
‘articolo 29 dice, infatti, che può definirsi famiglia soltanto quella società naturale fondata sul matrimonio (dico «quella» società naturale, perché ‘è da domandarsi se non possano essercene altre non fondate sul matrimonio). In ogni caso, parlare di famiglia per noi significa questo. ‘articolo 9 della Carta, laddove parla di diritto di sposarsi e di diritto di costituire una famiglia, parla di una cosa che nel nostro ordinamento è riunita in uno stesso articolo. Tanto che il legislatore, negli anni passati – penso soprattutto alle politiche sociali – si è preoccupato anche di parlare di «relazioni di tipo familiare», proprio per trovare altre definizioni che non contenessero la parola «famiglia».
La seconda questione è legata alla rilevanza pubblica del’accordo. Il matrimonio – anche questo tema è dibattuto in dottrina – si perfeziona con ‘evento pubblico, tanto che la funzione del’ufficiale è quella di completare ‘atto. Su cosa significhi questo completamento mediante ‘intervento del pubblico ufficiale si è molto discusso, perché comunque è il patto tra le due persone che sostanzia il matrimonio.
Ora, mi sembra che anche nel caso dei PACS si stia creando una procedura analoga, sulla quale abbiamo avuto un confronto anche con i colleghi proponenti la relativa legge. Personalmente credo che la funzione che si richiede al notaio o al pubblico ufficiale debba essere sostanzialmente diversa: non certo di perfezionamento del negozio, bensì di presa ‘atto, di mera ricezione del’atto medesimo. Non è argomento di poco conto, se pensiamo che il dibattito più recente si è sviluppato su cosa significa parlare di patti, o su cosa significa parlare di contratti, elemento che mi chiedo – e le chiedo – se sul piano giuridico possa avere un rilievo.
La terza domanda che le pongo riguarda il fatto che coloro che hanno deciso di convivere, dunque che hanno convenuto di non sposarsi, hanno intrapreso la strada di non dare rilevanza alla loro unione. Il problema è che ci sono, invece, coppie che non hanno scelto di non sposarsi, ma che sono obbligate a convivere perché, magari, esiste un procedimento di divorzio che dura da anni e inibisce ad uno dei due di contrarre matrimonio. Esiste poi ‘altra grande questione che riguarda le persone dello stesso sesso, che, non avendo la possibilità di contrarre matrimonio, non possono neanche dire di aver liberamente scelto di non contrarlo.
A mio avviso, come legislatori, dobbiamo guardare anche alle persone che non chiedono una legificazione così importante, ma essenzialmente strumenti di tutela che comunque va apprestata anche a quei casi che non conducono ad un patto civile di solidarietà. Da legislatore mi porrei lo stesso problema per una coppia che sceglie di vivere una relazione di fatto, decidendo di non contrarre il PACS, né il matrimonio. Anche in questi casi esiste il problema di tutelare le persone che si trovano in posizione di debolezza e di fragilità, al’interno di un rapporto che potrebbe provocare loro u’ingiustizia o un torto.
Fermo restando che pensiamo a questo strumento come ad u’opportunità da offrire, esistono comunque delle tutele che dovrebbero, proprio in relazione ai due articoli che richiamiamo, travalicare lo stesso patto civile di solidarietà, perché interessano i diritti fondamentali della persona che vive in una formazione sociale che non si è definita attraverso un accordo formalizzato.

FRANCO GRILLINI. Io ho trovato molto interessante il discorso del professor Santosuosso sul rapporto tra Carta europea e Costituzione italiana, anche perché è noto che chi non è ‘accordo sul PACS o su una qualsivoglia forma di riconoscimento in campo giuridico delle coppie di fatto, cita, a mio parere non a proposito, ‘articolo 29 della Costituzione facendone un utilizzo ideologico.
È del tutto evidente che la Costituzione, essendo del 1948, predisposta dunque in un periodo in cui non ‘era u’altra idea di organizzazione familiare – allora i conviventi venivano definiti concubini; qualcuno finiva perfino in carcere (alcuni casi famosi sono stati anche citati); qualcun altro veniva denunciato dal pulpito per la sua condizione di concubinaggio – non poteva tenere conto del fenomeno della convivenza, che però, oggi, è talmente esteso che sia il legislatore, sia la giurisprudenza non possono non considerarlo.
Ed infatti il legislatore ne ha tenuto conto in varie norme: mi riferisco alla legge n. 40 del 2004 sul’inseminazione assistita – sia pur escludendo coppie non eterosessuali dal’accesso a questo tipo di soluzione – alla legge sul’amministratore di sostegno e ad altre leggi ancora.
Così è stato anche per la giurisprudenza. La mia prima domanda, visto che lei è un magistrato, riguarda proprio la sua esperienza sul’argomento in campo giurisprudenziale, dal momento che ‘è un certo livello di conflittualità. È infatti impensabile che le coppie sposate abbiano un alto livello di conflittualità che porta in taluni casi a separarsi dopo un certo numero di anni di matrimonio, mentre invece le coppie di fatto non abbiano conflittualità. È invece ovvio che anche fra i conviventi ci sia conflittualità.
Personalmente ho partecipato a numerose inaugurazioni di anni giudiziari e i procuratori generali, ogni anno, ribadiscono che ci sono numerosi conflitti delle coppie conviventi che arrivano in tribunale e che il legislatore deve porre mano a questa materia. Sarebbe interessante capire, quindi, come si risolvono i conflitti che arrivano nei tribunali. Questo è un capitolo che non abbiamo ancora affrontato al’interno di questa audizione e credo che lei sia una delle figure più adatte con la quale affrontare la presente questione.
Tornando al’articolo 29 della Costituzione, va detto che se, ad esempio, si legge il successivo articolo 30, al primo capoverso è scritto quanto segue: «È dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori dal matrimonio». Quindi, persino la Costituzione del 1948 adombrava un qualcosa di diverso dal matrimonio tradizionale.
Ebbene, nel 1958, come ho avuto già modo di dire in altre occasioni, il regolamento di attuazione della legge anagrafica emanata nel 1954, definisce, sia pure solo per motivi anagrafici, quella che è la famiglia reale (non quella che è – per alcuni – la famiglia ideale), che non sto qui a citare u’altra volta. Quindi, le cose già allora erano più complicate di quanto si volesse far apparire.
Ora, da un lato siamo di fronte ad una battaglia ideologica, religiosa, morale e culturale (ognuno pensa quello che vuole della famiglia); dal’altro abbiamo i fatti, i numeri, le persone reali, le condizioni oggettive, che non sono più negate da nessuno. Al punto che se fino a qualche tempo fa – diciamo fino alla presentazione di questi progetti di legge, ma si può dire ancora prima – ‘era qualcuno che metteva ancora in discussione il «se» ci fossero dei diritti da riconoscere, adesso questo gradino è stato superato. Nemmeno il cardinal Ruini nega che ci siano dei diritti da riconoscere alle coppie di fatto (solo che lui propone il diritto privato). Oggi la discussione verte sul «come» intervenire ed è su questo «come» che ci sono le divisioni.
In conclusione, una prima domanda ‘ho già fatta e riguarda ‘esperienza giurisprudenziale che le è nota. La seconda discende dal ragionamento che ho cercato di svolgere fin qui: nel momento in cui la maggioranza dei paesi europei ha approvato legislazioni di vario tipo; nel momento in cui, come lei ha ben spiegato, ‘è una prevalenza della Carta europea sulle costituzioni nazionali in materia di riconoscimento dei diritti, è possibile arrivare ad imporre al’Italia il riconoscimento di questi diritti?

PRESIDENTE . Per concludere desideravo anc’io porre una domanda inerente ‘articolo 29. Questo non configura i diritti degli appartenenti alla famiglia, bensì «riconosce i diritti della famiglia». Si tratta, quindi, del riconoscimento – nella visione giusnaturalistica che ha la nostra Costituzione – di qualcosa che precede il diritto stesso.
Ora, la domanda è molto semplice: posto che dalla famiglia nascono dei diritti, si può ritenere compatibile con la Costituzione che dalla convivenza di fatto nascano dei diritti? Questo è importante per stabilire un confine tra gli eventuali patti, che non nascono dalla convivenza di per sé, e il fatto obiettivo della convivenza. Si tratta di chiarire se anche questo sia compatibile con una norma costituzionale che riconosce solo alla famiglia naturale costituita con matrimonio la nascita di per sé di diritti. Per me questo è un problema di fondo.

AMEDEO SANTOSUOSSO, Magistrato presso la corte di appello di Milano e docente presso la facoltà di giurisprudenza del’Università degli studi di Pavia. Cercherò di rispondere seguendo, più o meno, ‘ordine delle domande. ‘onorevole Pisapia ha chiesto se si può immaginare un contrasto con ‘articolo 29 nel momento in cui si riconoscono dei diritti maggiori, come procuratore, anche nella forma che avevo proposto, al contraente del patto. Io credo di no, per il semplice motivo che nessuno, fino ad oggi, ha ipotizzato che dal’articolo 29, o comunque dal regime ordinario della famiglia, derivasse il potere del familiare di prendere qualsiasi decisione in ordine ai trattamenti sanitari.
La situazione, quindi, non è di disparità, nel senso che in questo modo si vanno ad intaccare diritti esistenti. Qui si vanno a costruire nuovi diritti, nel senso di nuove potenzialità, che nulla vieta siano riconosciuti anche in ambiti diversi. In sostanza, la Corte Costituzionale non ha mai dichiarato ‘incostituzionalità di una norma per contrasto con u’altra norma: la Corte guarda la norma e la rapporta alla Costituzione.
Inoltre, non dobbiamo dimenticare che vige in Italia la legge sulla privacy che sancisce che neanche il familiare della famiglia intesa ai sensi del’articolo 29 può essere informato dal medico, perché deve essere il paziente ad indicare la persona che può essere informata sulle sue condizioni di salute. Da un lato è una norma di civiltà, dal’altro, però, non vi nascondo che solleva dei problemi. Provate ad immaginare la situazione di due fratelli che vanno in ospedale dove è ricoverato il padre che ha indicato solo uno dei due figli come persona da informare, con la conseguenza che il medico è obbligato ad informare solo ‘uno e non ‘altro.
Quello che mi interessa ribadire è che, allo stato attuale della legislazione, nessun diritto deriva al familiare, secondo il matrimonio esistente in Italia, in ordine alla salute, né in termini di decisione, né in termini di informazione. ‘informazione, secondo la legge vigente sulla privacy, può essere data solo alla persona indicata dal paziente. A mio avviso, dunque, ‘obiezione prefigurata dal’onorevole Pisapia non è plausibile.
Indubbiamente si possono concludere dei contratti, però, se noi andiamo a scorrere le varie proposte di legge, che su alcuni punti sono anche coincidenti (io qui prendo come riferimento la C. 3296), notiamo che non vi è semplicemente il riconoscimento del patto come contratto, ma sono previsti una serie di effetti di tipo pubblicistico che riguardano il fisco, la possibilità di accesso al lavoro, ‘anagrafe, ‘indennità di disoccupazione, ‘impresa familiare, ‘obbligo degli alimenti e così via. Ora, tutti questi aspetti non possono essere regolati da un contratto di diritto privato tout court. Guardando la questione da un punto di vista strettamente tecnico, il contratto di diritto privato – come è buona regola di ogni contratto – obbliga solamente i contraenti: può quindi essere un equivalente solo con riferimento agli obblighi strettamente personali. Ad esso, i terzi, rimarrebbero del tutto estranei. Ma la parte di maggiore rilevanza nella realizzazione del’uguaglianza e di alcuni diritti fondamentali dei contraenti il patto sta sul’altro versante: quella che crea obblighi a carico dei terzi, per cui si riconosce questa convivenza come un qualcosa di giuridicamente rilevante. Allora, a mio avviso, stiamo parlando non di una alternativa, ma di due cose diverse.
Questo discorso mi dà modo di rispondere anche alla domanda del’onorevole Falanga. Lei ha perfettamente ragione ed io sono ‘accordo su quanto ha espresso. Tuttavia, le faccio notare che il diritto internazionale privato non ci risolve gli aspetti di tipo esterno ai contraenti e quelli di rilievo pubblicistico. Il conflitto che prefiguravo era, ad esempio, quello di una coppia che ha contratto un PACS in Francia, che viene in Italia e chiede di aver accesso al’abitazione. Ebbene, se le norme italiane prevedono dei benefici solamente per i coniugati, il diniego per chi ha contratto il PACS in Francia può avere rilievo ai fini del’applicazione diretta del’articolo 9 della Carta di Nizza. Confermo, però, che dal punto di vista strettamente privatistico, sono del tutto ‘accordo con lei.
Sul piano fattuale e storico non credo si possa parlare del’articolo 29 della Costituzione ignorando quanto accaduto dopo. Nel 1948 esisteva la patria potestà, lo ius corrigendi del marito sulla moglie, ‘indissolubilità del matrimonio, il reato di adulterio e quan’altro. Successivamente sono intervenute molte innovazioni legislative, passando per il filtro costituzionale. La definizione del matrimonio come comunità di liberi ed eguali è stata fatta propria in relazione al’ammissibilità nel’ordinamento civile italiano del divorzio. Si può essere ‘accordo o dissentire, però questa stratificazione storica del diritto italiano non può essere disconosciuta. A mio avviso noi dovremmo avere maggiore rispetto di noi stessi come società italiana nel costruire il diritto.
Voglio citare solamente un caso. Nel 1992 la Corte suprema degli Stati Uniti, per la prima volta, si trovò ad avere una maggioranza antiaborista e fu chiamata a pronunciarsi sulla famosa sentenza «Roe Versus Wade», che aveva riconosciuto il diritto di aborto. Senonché la maggioranza antiaborista si spaccò, sostenendo la seguente tesi: «Per venti anni negli Stati Uniti si è osservata una regola affermata dalla Corte suprema federale. Prendiamo atto – e lo fecero anche coloro che non erano ‘accordo sul concetto di consentire entro certi limiti ‘aborto – che il nostro ordinamento e la nostra società si sono assestati su questo livello».
Ora, io credo che per quanto riguarda ‘evoluzione del concetto di famiglia, anche nella sua dimensione di naturalità – sul diritto naturale ‘è un dibattito infinito -, la versione attualmente più accreditata, anche dai sostenitori del diritto naturale, è quella del diritto naturale storico e non del diritto naturale come pura astrazione derivata da non si sa dove. Ebbene, ‘articolo 29 della Costituzione va, dunque, interpretato alla luce del’evoluzione del’ordinamento italiano e delle pronunce della Corte costituzionale.
Da questo punto di vista credo che interpretare ‘articolo 29, che riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio, come un qualcosa che esclude qualsiasi altro riconoscimento, ha una dimensione autoritaria che nessun giurista – fermo restando che il legislatore ha una autonomia superiore, è sovrano rispetto al giurista che è un mero esecutore – può disconoscere. Ciò rappresenterebbe u’intrusione nella vita privata delle persone. E badate che qui stiamo parlando di aspetti personalissimi, non di attività ‘impresa o economiche. Stabilire un limite ferreo è una cosa profondamente illiberale dal punto di vista giuridico che, di conseguenza, porterebbe ad un contrasto con gli articoli 2 e 3 della Costituzione.
Vi ricordo che ‘articolo 3 parla non solo di uguaglianza, ma anche di non discriminazione, punto che, a mio avviso è particolarmente importante.

MARCELLA LUCIDI. Sono ‘accordo con questo ragionamento: non trovo che ‘articolo 29 sia inibitorio rispetto ad altre formazioni sociali. Tuttavia, se nel nostro paese devo ragionare su co’è la famiglia per il diritto, devo attestarmi sul’articolo 29. Certo, sono ‘accordo che non posso averne una visione autoritaria e che i diritti della famiglia non possono essere diversi dai diritti dei componenti. Così come sono ‘accordo che il legislatore ha lavorato al’interno del pacchetto del’articolo 29, però una cosa sono le convenienze, u’altra è la famiglia. Lo slogan «attenti a non intaccare la famiglia del’articolo 29» è una cosa che diciamo tutti, sebbene non si riesca a capire in cosa si deve sostanziare. Dunque, se dico famiglia, dico articolo 29; se dico convivenze e relazioni di altro tipo, dico articolo 2 e articolo 3.

AMEDEO SANTOSUOSSO , Magistrato presso la corte di appello di Milano e docente presso la facoltà di giurisprudenza del’Università degli studi di Pavia. Scusi se la interrompo. Tra giuristi chiameremmo il suo ragionamento giuridicismo, in quanto lei pretende di trarre da una definizione legislativa, seppur di rango costituzionale, cosa è la famiglia. Questo è un far derivare la realtà dal diritto, anziché usare il diritto per regolare la realtà. È un peccato di idealismo che tra i giuristi non credo compia più nessuno.
Devo poi rispondere alla domanda relativa alla mia esperienza in ambito giudiziario. Ebbene, ho avuto u’esperienza diretta al tribunale per i minorenni dove ho preso visone della separazione dei conviventi, che era un percorso parallelo. Per la verità non ho esperienza diretta, ma ne ho conoscenza, di u’altra cosa impressionante: le cause civili ordinarie per risolvere questioni patrimoniali tra i conviventi. Perciò sottolineavo ‘importanza di avere un giudice unico che decida delle questioni patrimoniali sia per il matrimonio sia per le coppie che hanno stipulato un patto.
Se non erro il presidente Pecorella ha parlato di imposizione di diritti a proposito della legge che riconosce al di fuori del matrimonio…

PRESIDENTE. Si trattava del problema posto dal’onorevole Lucidi di persone che fanno la scelta di convivenza di fatto proprio per non aver regolamentato dalla legge…

AMEDEO SANTOSUOSSO, Magistrato presso la corte di appello di Milano e docente presso la facoltà di giurisprudenza del’Università degli studi di Pavia. Bisogna stare attenti e capire a cosa ci si riferisce.
Mi spiego meglio: due persone – e ve ne sono – possono decidere di non sposarsi, di non stipulare nessun patto per conservare la massima libertà. Ora, questo può strettamente riguardare i rapporti interpersonali, ma quando si comincia a parlare delle implicazioni concernenti la prole, ad esempio, in quel caso posso essere libero quanto voglio, ma comincio a coinvolgere dei terzi.
La parte che trovo più interessante di questa legge è la parte di dettaglio – forse sarò deviato dalla mia prassi professionale – sono le singole norme che vanno a rispondere a problemi che si sono trovati a dover affrontare i giudici e gli amministratori; si tratta di dare una risposta ai bisogni concreti delle persone quando sono in difficoltà, non quando tutto va bene e dicono che stanno insieme perché hanno voglia di stare insieme.

PRESIDENTE. Professor Santosuosso, la ringrazio nuovamente per il suo prezioso intervento.
Dichiaro conclusa ‘audizione.

La seduta termina alle ore 15,05.


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