Fino a che punto ha senso per u’associazione lgbt portare avanti il proprio programma (la propria "agenda") senza tenere conto della realtà che la circonda? In altre parole, è possibile tenere un pride, anche se senza corteo, mentre il proprio paese bombarda un paese confinante e ne viene bombardato a sua volta? A questa domanda la Jerusalem Open House, ‘associazione che ha organizzato il worldpride 2006 (Gerusalemme 6-12 agosto), ha di fatto risposto "sì", suscitando non poche perplessità nel panorama lgbt internazionale: diverse associazioni, tra cui Arcigay, hanno infatti rinunciato a partecipare a quello che è stato forse il primo "war pride" della storia.
A giustificazione della sua decisione di continuare con gli eventi previsti per il worldpride nonostante lo scoppio della guerra, Open House aveva sostenuto che tale decisione si inquadrava nel’ambito della lotta per una "Gerusalemme più libera e più democratica" (www.wordlpride.net).
Ma che significa esattamente? Altri due comunicati online dell’associazione non aiutano a capire: si esprime vicinanza “alle vittime della violenza” e si dice di “sperare nel’arrivo della pace”, descrivendo gli eventi di guerra come fossero fenomeni meteorologici, anziché frutto di scelte umane, politiche.
Si insiste poi col dire che “la situazione a Gerusalemme è tranquilla” e che il corteo è stato rinviato solo per assenza di forze di sicurezza: un stile quasi più da pro-loco che da associazione con un proprio senso etico.
La cosa, per contrasto, diviene ancora più evidente se si pensa che in quegli stessi giorni l’associazione lgbt libanese Helem (la prima nel medioriente arabo) metteva a disposizione la propria sede e i propri volontari per coordinare gli aiuti da far pervenire a quaranta centri di prima accoglienza per gli sfollati causati dai bombardamenti israeliani (http://sanayehreliefcenter.blogspot.com).
Come spiegare l’atteggiamento di Open House? E’ vero che già l’anno scorso le autorità israeliane, in vista dello “sgombero” di Gaza, dissero che non avrebbero potuto garantire la sicurezza del corteo e che gli organizzatori preferirono rinviare tutto al 2006.
Indubbiamente la prospettiva di rinviare per la seconda volta un evento che ha richiesto le migliori energie di decine di persone per oltre un anno avrebbe fatto cadere la braccia a chiunque. Scegliere non dev’essere stato facile.
Ma l’aver rinviato per un evento che non ha provocato vittime (lo sgombero di Gaza nel 2005) e non averlo fatto di fronte ai quasi 1500 morti (tra libanesi, palestinesi e israeliani) di oggi è, a dir poco, bizzarro.
Certo, in Israele, come in altre realtà del Medioriente, il senso della precarietà delle cose è più sentito che da noi, e le persone si abituano a fare (ed a continuare a fare) cose in circostanze che per noi sarebbero incomprensibili.
‘ parte della loro forza, ma ormai sta diventando la loro debolezza: ‘abitudine al peggio, il rifiuto di analizzare davvero il contesto in cui si vive e le cause che lo determinano.
Se andiamo a vedere che cosa si cela dietro questa capacità di "straniamento", troveremo il "convitato di pietra" di ogni coscienza israeliana: la politica estera del proprio paese, comprendendo in questa parola anche ‘occupazione e la colonizzazione dei territori dei palestinesi.
Fino a qualche anno fa "Jerusalem Open House" rifiutava non solo di pronunciarsi pubblicamente su questi argomenti, ma persino di discuterne al proprio interno, per timore di divisioni e spaccature che avrebbero indebolito l’organizzazione nel suo complesso.
Lo stesso atteggiamento ha caratterizzato la comunicazione di Open House sulla guerra contro il Libano e Gaza.
Viene da chiedersi se ‘unità di u’associazione valga la reticenza su temi simili, soprattutto se tale reticenza, davanti alla prova dai fatti, si rivela fittizia. Grazie a Daniele Salaris (https://www.arcigay.it/show.php?2081), presente al raduno sostitutivo del corteo del worldpride, veniamo a sapere che a un certo punto della blindatissima manifestazione al "Liberty Bell Park" di Gerusalemme tutti i membri del’Open House hanno abbandonato il campo, contrariati dagli slogan contro la guerra gridati da Queeruption [manifestazione lgbt antagonista] e dai Giovani Comunisti Israeliani. Alle accuse di essere dei fascisti, gli esponenti dell’Open House hanno risposto di essere lì per manifestare contro ‘omofobia, non contro la guerra; per i diritti di gay e lesbiche, non per la pace.’Questa guerra è brutta ma è necessari’, hanno dichiarato”.
Meno male che "speravano" nella pace, verrebbe da dire. Alla luce di affermazioni simili, anche la manifestazione (peraltro poco pubblicizzata) contro il muro che Israele (nonostante il pronunciamento contrario della Corte di Giustizia Internazionale) sta costruendo nei territori occupati, risulta poco credibile. Insomma, troppo poco e troppo tardi.