Io, accoltellato da mio padre perché sono gay

  

PALERMO — Quel figlio storto voleva raddrizzarlo a modo suo. Considerando una disgrazia aver generato un gay. Ma non c’era riuscito con le minacce. Senza sopportare «il disonore e la vergogna», come sentivano gridare i vicini di questo grigio Bronx palermitano che è Brancaccio. Sbuffando rabbia davanti alle moine effeminate, «a strass e camicie trasparenti che stanno bene sulle femmine», alle notti passate nei pub di «quelli dell’altra sponda». E l’ira di un autotrasportatore abituato a viaggiare su camion con donnine incollate agli sportelli, nato e cresciuto nel mito del maschio focoso, allenato dai colleghi alle battutacce contro i diversi, s’è rovesciata improvvisa sul figlio picchiato a sangue fra le bestemmie.

A rischio di uccidere il suo Paolo. Brandendo un coltello che ha inzuppato di sangue il bagno di casa, il box doccia dove questo padre infuriato stava per diventare un assassino. Adesso Giovanni Brunetto, a 53 anni, è in carcere. E il figlio, maggiorenne da quattro mesi, ammaccato e incerottato, rivede il film di questo epilogo preceduto dalle certezze paterne che provava a smontare: «Glielo dicevo che non mi drogavano, che non mi davano pastiglie, che se sono gay è per mia natura, non per colpa delle cattive compagnie. E lui a gridare che nella sua famiglia non poteva esserci spazio per i froci… ».

S’interrompe Paolo e, nella ricostruzione dell’assalto alla doccia, rivela la chiave della reazione paterna. Perché il ragazzo domenica era stato tutto il giorno al mare, a Mondello, da dove era tornato abbronzato e bello come un Adone, il fisico di un fotomodello, deciso a uscire dopo cena per correre all’Exit, il pub di piazza Sant’Oliva. «Ma la sera prima mi aveva seguito, diceva. E gridava che io non dovevo tornare in quel covo dove mi facevano prostituire. Ma che dici? Inutile spiegargli che le barriere sono cadute, che nei pub omosex vengono tutti, che noi frequentiamo anche gli altri locali dove vanno maschi e femmine… Niente. Chiusura totale. E allora gli ho rovesciato addosso quello che avrei voluto non dirgli. E cioè che un mio amico gay mi ha presentato il suo fidanzato, rimasto di sasso quando ha scoperto chi ero. Perché si trattava di nostro parente stretto. E quando le minacce in quel box doccia trasformato nella mia gabbia sono diventate pesanti, quando partivano i primi calci, non ce l’ho fatta a tenermi dentro quel segreto: "Ecco la tua famiglia dove non c’è spazio per i froci"…».

Un racconto accorato che Paolo fa dopo essere uscito dall’ospedale, tornando nel modesto appartamento sulla strada di periferia che corre verso Messina, palazzoni anonimi, un balcone quasi rasoterra, una finestra sul cortile, una stanzetta minuscola e un computer. Lo indica Paolo e quasi se lo abbraccia: «Io lo sapevo da una vita di essere gay, ma non avevo la forza di dirlo a me stesso e mi sono messo con una ragazza per tre anni, praticamente fidanzata in casa. Ma non ce l’ho fatta. È finita. E io mi sono incollato a Internet. Chattando ho scoperto il mondo, sono volato lontano, ho trovato chi mi ha aiutato ad uscire dal guscio, a non avere vergogna…».

Poi, il primo rapporto con un ragazzo. Appena sei mesi fa. «L’ho presentato a mia madre ». E lei, bionda, il trucco sfatto, disorientata, ma innamorata di suo figlio: «Che potevo fare? L’ho accettato. Ho cercato di spiegarlo a mio marito, ma è stato difficile. Un po’ anche per colpa di Paolo che non studia e non lavora…». Ma è Paolo ad interrompere la madre: «Quante volte gli ho chiesto di aiutarmi per trovare un’occupazione. E lui a sputare veleno, a dire che non c’è lavoro per i froci… Comunque, non me ne sto con le mani in mano e continuo a spedire foto…». Già, perché il sogno di Paolo è il cinema, è la moda, è l’allegro e scanzonato mondo tutto a colori che gli arriva a casa via monitor. Mentre attorno prevale l’ombra.


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