PECHINO — A Edinanci consigliarono il judo come terapia. Attraverso il successo nello sport, forse, un giorno sarebbe riuscita ad accettare se stessa. «Mi è sembrato di combattere con un uomo» disse l’azzurra Lucia Morico, che ad Atene sconfisse la brasiliana nello spareggio per il bronzo e oggi, a Pechino, rischia di ritrovarsela di fronte.
Edinanci Silva è un ermafrodita che ha deciso di operarsi. 1, 2 o x? Edinanci ha scelto di essere donna ma lo sport olimpico, ogni quattro anni, s’interroga se sia giusto che chi ha la barba e il pomo d’Adamo s’iscriva a tornei da femmina. L’atletica deve ancora cominciare, e già monta la polemica contro Pamela Jelimo, 18 anni, keniana, regina annunciata degli 800 metri. Non può correre così, non è possibile, dicono. Non fa mai interviste perché si tradirebbe: ha la voce da uomo.
Qui non ci sarebbe stato posto per Santhi Sundarajan, privata dell’argento ai Giochi asiatici, accusata di essere un maschio e ridicolizzata dalla stampa indiana: «Ha cromosomi anormali».
L’ermafrodita Alex, nel film argentino «Xxy» vincitore della Settimana della critica a Cannes 2007, scappa in Uruguay per non affrontare la realtà. Ma all’Olimpiade non si sfugge. La società che cambia è in piscina, sul tatami, al poligono del tiro, sotto il canestro e dentro le corsie dell’atletica, la disciplina più praticata nel mondo, quella con la casistica più ampia, prima, durante e le mostruose donne-uomo plasmate dal doping della Ddr. Andreas Krieger era nato Heidi e lanciava il peso oltre 21 metri. Un oro (Europei Stoccarda ’86) e molti steroidi dopo, è stato costretto a cambiare sesso. Ha fatto causa ai criminali in camice bianco che l’avevano dopato. Ma nessuno gli ha ridato la sua vita.
Yvonne Buschbaum, bronzo nell’asta a Budapest ’98, aveva conquistato il cielo e non la verità: «Ho vissuto come un uomo in un corpo da donna. Non ne posso più. Comincio una cura di ormoni. Essere trans è una scelta estrema, chiedo rispetto: i miei successi sono biologicamente puliti perché non mi sono mai dopata».
Nel novembre 2003, pressato dall’incalzare degli eventi, il Comitato olimpico internazionale aprì le porte dei Giochi ai transessuali. «Non ci saranno discriminazioni: il Cio rispetta i diritti dell’uomo» disse il direttore medico Patrick Schamasch. Patti chiari e amicizia lunga: operazione, documentazione medica che attesti il cambiamento di sesso, rispetto della carta olimpica. Puoi essere stato uomo, ma non puoi farti di ormone della crescita. Renée Richards, all’anagrafe Richard Raskind, campionessa di tennis negli anni 70, dissente: «I trans non dovrebbero partecipare ai Giochi». Però si battè per se stessa: nel 1976 la Federtennis Usa le negò la partecipazione agli Us Open, fece causa davanti alla Suprema Corte e la vinse. Parinya Kiatbusaba e Michelle Dumaresq sono campionesse transessuali di kickboxing e mountain bike. E Mianne Bagger, operata nel ’95, gioca a golf nel pro Tour.
Ma il caso era aperto ben prima che il Cio decidesse di occuparsene. Nel 1936, a Berlino, la sprinter polacca Stella Walsh venne sconfitta dall’americana Helen Stephens, che fissò il nuovo record del mondo sui 100 metri in 11”4. Dopo la gara, la Polonia protestò: Helen è un maschio, non ha diritto alla medaglia. Il test della femminilità (una brutale ispezione corporale) provò che era tutto regolare. 44 anni dopo, l’autopsia del coroner sul corpo di Stella Walsh, trovato senza vita in un posteggio di un discount di Cleveland, dimostrò che la confusione delle idee, e dei sessi, viaggiava molto più veloce dello sport. A essere un uomo, era Stella. Tokyo ’74: Ewa Klobukowska vince un oro e un bronzo nell’atletica. Fallisce il test della femminilità e viene bandita dalle gare. L’anno dopo diventa mamma.