La vita agra dei gay in Turchia

  

ISTANBUL – L’appuntamento è nel pomeriggio alla sede di Lambda, l’associazione che riunisce gay, lesbiche, transessuali, transgender a Istanbul. In una stradina laterale, Lambda è a due passi dal cuore della città sul Bosforo, Istiklal Caddesi, la piazza Taksim. In un piccolo edificio dietro l’angolo di una stazione di polizia, all’ultimo piano con la porta di Lambda si apre un mondo che non è molto visibile. Anche se è estremamente attivo e vivace.

Sorridente e molto cordiale, Ruzgar sarà un po’ la guida dentro questa altra Istanbul. Che è fatta di determinazione, coraggio e tanta violenza e soprusi, da parte delle autorità come da parte di organizzazioni omofobiche e individui che coltivano il culto di una società macha, complice l’esercito che qui è più che una presenza pesante: tre colpi di stato in trent’anni, un servizio di leva obbligatorio lungo e violento, un battage pubblicitario insistente. Il culto della nazione, dello stato, del laicismo protetto dalle forze armate, il papà severo della Turchia. Disciplina e regole, pugno di ferro che significa repressione di quanti dissentono, e non solo politicamente. A farne le spese i kurdi e le altre etnie che popolano la Turchia, le donne naturalmente, e anche chi vive una sessualità altra. Le storie di abusi e violenze si moltiplicano.

A Lambda in questi giorni si parla di un omicidio che fa molto discutere. E’ stato definito il primo caso di omicidio «d’onore» che ha come vittima un omosessuale. Ahmet Yildiz aveva 26 anni, studiava fisica all’università. L’anno scorso aveva rappresentato la Turchia a una iniziativa internazionale di gay a San Francisco. Stava uscendo da un caffè sul Bosforo, qualche settimana fa. Qualcuno gli ha sparato. Lo studente, anche se gravemente ferito, ha cercato di fuggire ma è svenuto. E’ morto all’ospedale qualche ora dopo essere stato ricoverato.

Per molti amici Ahmet è la prima vittima di quei crimini d’onore che riguardano le donne in Turchia (come in altri paesi mediorientali ma anche europei, non ultima l’Italia). Vittima di una guerra tra la vecchia mentalità omofobica e una nuova crescente cultura delle libertà civili, l’ha definito qualcuno. Perché se è vero che i gay in Turchia sono oggi più visibili (soprattutto nelle metropoli, diverso il discorso nelle zone rurali e nei piccoli centri) è anche vero che questa visibilità li rende più esposti alla violenza.

Il coming out, cioè il dichiarare pubblicamente la propria sessualità altra, è ancora molto difficile in Turchia. Significa emarginazione, violenza, scherno, addirittura il licenziamento in alcuni posti di lavoro. Significa pressioni da parte della famiglia, spesso incapace di accettare un figlio o una figlia con un’altra sessualità. Che è considerata una malattia. Lo dimostra in maniera violenta l’umiliazione di chi, omosessuale, chiede di non fare il servizio militare.

Il nome di Mehmet Tarhan ricorre spesso sulle labbra di chi frequenta Lambda e non solo. E’ un nome diventato noto anche a livello internazionale. Nel 2005 i vertici militari chiesero a Mehmet Tarhan, kurdo e obiettore di coscienza, di dimostrare la sua omosessualità – perché l’omosessualità è considerata una malattia e come tale va dimostrata. Le prove richieste erano fotografie o video di rapporti sessuali che provassero l’omosessualità del giovane. Tarhan aveva chiesto di non fare il servizio militare in quanto obiettore di coscienza e non in quanto omosessuale. Seguirono mesi di carcere e violenze inaudite che ancora, tre anni dopo, non si sono ancora esaurite.

In una ricerca condotta da Lambda, il 29% dei 27 uomini che avevano chiesto di non svolgere il servizio militare nel 2006 aveva dovuto fornire ai vertici militari «prova della propria omosessualità. Il 62% era stato sottoposto a una umiliante visita anale. L’associazione diritti umani (Ihd) ricorda che l’omosessualità di una persona in Turchia deve essere determinata da uno psichiatra e che se ci si rifiuta di essere visitati da uno psichiatra si finisce con il dover svolgere il servizio militare. Che non è certo una passeggiatta per nessuno in Turchia, men che meno per i gay, costretti a subire le violenze dei commilitoni.

Oggi nelle grandi città come Istanbul, Ankara, Izmir gay, lesbiche e trans sono più visibili ma non certo più protetti, nemmeno legalmente. Negli anni Ottanta (subito dopo il golpe) e Novanta i bar frequentati dai gay venivano regolarmente perquisiti dalla polizia. Molti venivano arrestati, le conferenze omosessuali venivano vietate. La situazione un ventennio dopo non è migliorata di tanto. Quello che è inarrestabile è la capacità di organizzarsi dei Lgbt. Che non si arrendono, come ha dimostrato la grande manifestazione del Pride 2007 e 2008 a Taksim, nel cuore di Istanbul. Non una passeggiata, ma è stato fatto. In tribunale, associazioni gay e lesbiche ci finiscono regolarmente per offesa ai valori della famiglia, per offesa al pudore, per favoreggiamento della prostituzione. Riviste come Kaos vengono vietate un mese sì e un mese no. Ma continuano la loro battaglia per i diritti di tutti.

La Turchia ha discusso e rielaborato il codice penale per armonizzare le proprie leggi a quelle europee in vista di un possibile, per quanto ancora lontano, ingresso nella Ue. Ma la discriminazione nei confronti di Lgbt rimane alta. Anche se grazie al coming out di molte personalità del mondo dello spettacolo e della cultura si discute sempre di più di diritti delle persone a prescindere dai loro orientamenti sessuali. Curiosamente, tra i cantanti più amati in questa nazione macho-centrica ci sono due trans come Zeki Muren e Bulent Ersoy, quest’ultimo sotto processo per aver «diffamato le forze armate»: in una trasmissione televisiva molto seguita Ersoy aveva etto che se avesse avuto un figlio avrebbe fatto di tutto per non fargli svolgere il servizio militare.

L’ultimo rapporto di Human Rights Watch riporta alcuni dati preoccupanti. Per esempio da uno studio commissionato dal governo sulla violenza contro gay, lesbiche e trans si evince che il 37% degli intervistati ha subito violenza fisica, il 28% violenza sessuale. Soltanto il 26% delle vittime di questa violenza si sono rivolte alla polizia. La sensazione che chi commette violenza contro gli omosessuali goda di una impunità quasi totale è forte. E soprattutto non ci si fida della polizia. «Sono tante le storie che ascoltiamo qui dentro – dice Ruzgar – di maltrattamenti nelle stazioni di polizia, durante le perquisizioni nelle case».


L’INTERVISTA

«Che umiliazione quelle prove alla visita di leva»


Partiamo proprio dall’associazione. Quando è nata, cosa fate?


Lambda è stato aperto nel 1993 e io sono una volontaria dal 2004. All’inizio c’erano molti uomini gay tra i fondatori, poi con gli anni sono arrivate lesbiche e trans. L’idea era quella di aprire una associazione ma anche un centro culturale, in altre parole di fornire uno spazio dove la comunità gay potesse incontrarsi. Abbiamo cambiato un paio di sedi e ora siamo in questo ufficio che è anche centro culturale, biblioteca, videoteca. Nel 2006 abbiamo chiesto lo status legale e lo abbiamo ottenuto.


Ma la repressione contro di voi non è finita?


Tutt’altro. In questi anni sono stati aperti contro di noi diversi procedimenti penali. Questo ultimo è cominciato dicendo che gay, lesbian eccetera non erano termini turchi ma inglesi e quindi non potevano essere usati. Poi hanno cominciato a dire che si favoriva la prostituzione. Il pubblico ministero ha chiesto la chiusura dell’associazione perché siamo un pericolo per i valori tradizionali della famiglia.


Ritorniamo alle attività del centro.


Abbiamo una piccola biblioteca, una videoteca, organizziamo serate a tema, ma non vogliamo che questo diventi uno spazio di autoreclusione dei gay, quindi lavoriamo molto anche fuori dalla sede di Lambda. Per questo organizziamo numerose iniziative, manifestazioni colorate, di strada. E poi negli ultimi due anni siamo riusciti, non senza sforzi enormi, a organizzare un Pride qui a Istanbul. Inoltre abbiamo attivato da qualche mese anche una help line, Un servizio che sta riscuotendo grosso successo, nel senso che è molto utilizzata e questo ci ha confermato di quanto siano soli gli omosessuali in questo paese. Raccogliamo denunce da ogni parte del paese. A volte chiamano le famiglie e a volte sono giovani che vogliono sapere come vivere la loro sessualità, come parlare, uscire allo scoperto. Perché il grosso problema qui è uscire allo scoperto. L’altra grande questione, per gli uomini, riguarda il servizio militare. L’omosessualità è vista dall’esercito come una malattia. Bisogna sottostare a un trattamento davvero umiliante. Chiedono prove della tua omosessualità. Che vuol dire portare dei video o delle foto che provano la tua omosessualità.


La violenza però si registra anche in strada e a volte anche in famiglia.


Sì purtroppo c’è molta violenza anche per strada. Ti confesso che a volte anch’io ho paura a tornare a casa da sola, ti rendi subito conto che la gente ti guarda strano. Ma soprattutto ci sono gang di ragazzi organizzati che vanno a colpire i gay o i trans. Ecco, i trans sono oggi forse i più colpiti dalla violenza, perché se sei trans immediatamente ti associano con una prostituta. Anche la polizia usa molta violenza, raccogliamo molte denunce contro le forze dell’ordine,
ma va da sé che questa violenza rimane impunita.


Che aria si respira all’università?


Dipende molto dall’università. Io ho studiato qui a Istanbul. Non mi sono mai nascosta, vivo la mia sessualità apertamente e sono stata fortunata perché nella mia università ho trovato gente pronta a ascoltare, se non a accettare. Certo mi rendo conto che la gente mi guarda strano, ma per esempio i miei insegnanti sono stati molto aperti. Rimangono molto pesanti invece le discriminazioni sul posto di lavoro. Si può essere licenziati se si è gay o lesbiche. E, di nuovo, se sei trans molto spesso non ti danno nemmeno il lavoro.


Fare «coming out» non è mai facile. Per te come è stato?


Intanto va detto che c’è una enorme differenza tra quello che avviene nelle grandi città e quello che avviene nei piccoli paesi. Pensa a un paesino o un villaggio dell’Anatolia: «uscire» è molto più difficile. Detto questo, il coming out non è mai facile, anche se la tua famiglia è aperta. E qui faccio un esempio personale. La mia famiglia è stata da subito molto aperta e solidale, mi ha sempre detto di vivere tranquillamente la mia sessualità, ma anche loro mi chiedono di non fare troppa… pubblicità. Comunque c’è il timore che qualcuno della famiglia, qualche parente sappia, ti veda. I miei sono solidali, ma mi continuano a dire che la mia sessualità è un fatto privato.


Com’è stato il Pride?


Molto bello, un’esperienza di crescita importante. E’ stato difficile organizzarlo ma ce l’abbiamo fatta, la polizia ha cercato di vietarlo ma siamo riusciti lo stesso a farci vedere. Credo che la cosa più importante sia il fatto che ogni giorno ci sono nuove associazioni che nascono in diverse città. E’ importante che la gente si organizzi e questo sta accadendo, non solo nelle grandi città.


  •