Sì, siamo gay in divisa

  

«Chiediamo una legge che ci tuteli dalle discriminazioni e una forma di riconoscimento da parte del ministero della Difesa»

«In Italia non si parla dei gay in divisa perché ci vuole più coraggio a sfidare ostilità e derisione dei colleghi che ad affrontare un ladro o un bandito»


di Gabriella Colarusso – Foto di Andrea Frazzetta


All’inizio mi nascondevo. Temevo che nessuno tra i miei colleghi avrebbe potuto capire: un militare gay! Figuriamoci. Ma bisogna avere il coraggio di essere se stessi». Nicola Cicchitti a trent’anni, gli occhi neri neri che illuminano il viso e l’accento che inclina ancora a sud, nonostante il decennio trascorso a nord est. Prima a Udine, in una brigata di confine, poi a Trieste. Con la divisa grigia della Guardia di finanza addosso. «La desideravo fin da ragazzino», dice accogliendoci nel suo piccolo appartamento nel centro di Trieste. «Sogni? Ne ho almeno due. Sposare il mio compagno, innanzitutto. E poi organizzare in Italia il meeting europeo dei poliziotti gay e lesbiche». Perché «non é vero che tra le nostre forze dell’ordine, così come nell’esercito, non ci sono omosessuali», sorride Nicola, stropicciando la copertina di Middlesex, il romanzo di Eugenides che ha per protagonista una rara specie di ermafrodito. «Ci sono invece, e sono ottimi professionisti».

Non chiedere, non dire. In Europa, gay e lesbiche in divisa hanno fondato associazioni e finanche sindacati (Gaylespol in Spagna, Eurogaycops in Olanda), organizzano raduni internazionali e vengono formati contro gli hate crimes. Invece in Italia l’argomento rimane un tabù, e nelle caserme vige il codice americano: don’t ask, don’t telt, non chiedere, non dire. «Ma qualcosa sta cambiando», sdrammatizza Nicola. «Questa intervista ne è una dimostrazione». Nel 2005 è nata Polis Aperta, una community online di omosessuali appartenenti alle forze dell’ordine. Ma non solo: «Sì, è stata fondata da un gruppo di poliziotti», racconta Nicola. «Perché i militari come noi non possono dar vita ad associazioni senza il permesso del ministero». In pochi anni, Polis Aperta – «che, attenzione, tra gli associati conta anche parecchi civili» – è diventato un autentico punto di riferimento per finanzieri. militari della marina, dell’esercito e dell’aeronautica, carabinieri, poliziotti e vigili urbani. Gay e lesbiche. Un centinaio in tutto. Invisibili. Almeno fino a oggi. Perché Nicola, Marcello e Salvatore hanno deciso di fare coming out. Gli unici disposti a farsi intervistare e ritrarre su queste pagine. A modo loro, una rappresentanza dei tanti gay italiani in divisa.


Contro gli hate crimes


«Lo facciamo per dire ai tanti nostri colleghi omosessuali: uscite allo scoperto. Non c’è nulla da temere. Purtroppo molti hanno ancora paura del mobbing, pensano di poter perdere lavoro o di essere trasferiti», spiega Nicola, che da due anni coordina l’associazione. E che infatti è qui a raccontarsi. «Da quando mi sono dichiarato non mi è successo nulla di grave. In Italia però manca ancora una legislazione che ci tuteli da eventuali discriminazioni sul posto di lavoro», Questo è ciò che chiede Polis Aperta, insieme «a una sorta di riconoscimento ufficiale da parte del ministero della Difesa». Prima però occorre misurarsi con le convinzioni di chi pensa che l’omosessualità, nell’esercito come in polizia, non debba essere ostentata. «Vado a lavorare ogni giorno in jeans e maglietta, certo non in tacchi a spillo e piume di struzzo», provoca Nicola. «Cosa vorrebbe dire "non ostentare proprio orientamento sessuale"? Se significa nasconderlo, allora non sono d’accordo». Dai tempi in cui frequentava il liceo a Vibo Valentia e si negava al mondo pensando di essere «unico e sbagliato», Nicola ha fatto una piccola rivoluzione. È membro dell’Arcigay, coordina Polis Aperta e in caserma parla tranquillamente della sua sessualità. Convinto che prima o poi anche esercito e polizia italiani debbano fare il grande salto. «Magari introducendo i corsi di formazione contro gli hate crimes, in modo da essere in grado di tutelare tutti i cittadini; gay e lesbiche compresi». Modi da gentiluomo, portamento elegante eppure scanzonato, seduto al tavolino del bar più friendly di Trieste, tra poltrone in velluto rosso e locandine del film di Almodòvar, La mala educaciòn, Nicola parla di coraggio e responsabilità: «È vero che gli ambienti militari sono da sempre machisti e di omosessualità nelle caserme non si parla, lì resiste falso mito dell’eterosessuale forte e del gay debole. Ma è un problema di non conoscenza. Perché la professionalità di un militare non c’entra nulla con i suoi gusti sessuali. Le leggi non bastano a cambiare la mentalità, la responsabilità è anche nostra. Possiamo partecipare a tutti i simposi del mondo, ma se non ci mettiamo la faccia, come possiamo pretendere che gli altri capiscano? Che superino i loro pregiudizi?».

Il sito di Polis Aperta continua però a rimanere anonimo: niente nomi, indirizzi, numeri di telefono. Nessun riferì mento a fatti, luoghi e persone. «Perché non tutti sono pronti a esporsi», risponde Nicola. «Anch’io prima temevo la reazione dei miei colleghi. Ma è bastato parlarne per scoprire che non c’era motivo di avere paura».


Bambole, trattori e gaydar


Marcello invece ha attraversato l’Italia per ritrovare sé stesso, «Da Bari a Torino, sono andato da tutti i colleghi più cari, dagli amici, a rivelare loro che sono gay». Eccolo l’appuntato Strati. 45 anni, da 22 finanziere a Como. La sua omosessualità è stata segreta per dodici anni. «Fingevo. Come ancora fanno molti miei colleghi, magari sposati e con figli. Finisci per avere una doppia vita, secondo un il perfetto copione di famiglia etera: babbo, mamma, bimbo, cane, nonno. Un modello che rispetto profondamente. Ma i non è l’unico possibile». Nella sua casa tra le campagne di Veniano, in provincia di Como, Marcello colleziona libri, film, foto dei suoi frequenti viaggi. E ricordi di una sensibilità negata. «All’asilo scambiai la mia macchinina, che poi era un trattore, con la bambola di una bambina. La maestra mi disse: "Tu non puoi giocare con le bambole, devi giocare con il trattore o con i soldatini"».

Da quando la divisa l’ha poi indossata davvero, la prova – più difficile per Marcello è stata affrontare le battute e le i barzellette dei colleghi: «Per me erano pugnalate». Tanto da fargli preferire il silenzio alla libertà, nella paura di perdere gli amici. «Nessuno dice "non ti frequento più perché sei gay". Poi però le telefonate si diradano, quando organizzano le cene non ti invitano, alla fine ti sembra di non esistere più». A volte, basta un
viaggio per cambiare le cose. In abiti civili, guardandosi dentro. «Mi sono detto: i se ti volevano bene prima, te ne vorranno anche dopo. E così ho preso coraggio e mi sono raccontato. Per i miei i colleghi non è cambiato nulla, per me invece è stato come rinascere. Ora sono me stesso. E non sai che bella sensazione…». Adesso Marcello può anche scherzare sulla sua doppia vita: «L’ultima relazione di copertura con una ragazza è durata quasi tre anni. Ma sono stato fortunato: era un’integralista cattolica e voleva arrivare vergine al matrimonio». Happy end. E il futuro? «Serve un’associazione che tuteli gay e lesbiche, poliziotti e militari, dalle discriminazioni. Ma io continuo a preferire le battaglie quotidiane per far capire a chi mi sta vicino che cos’è l’omosessualità». Dopo il coming out, in caserma le cose sono cambiate, «colleghi mi parlano, vogliono capire. Qualche mese fa, un nuovo arrivato, giovanissimo, mi ha detto: "Marcello, sa che fino a poco tempo fa non avrei mai pensato di camminare per Milano con una persona omosessuale accanto? Mi sarei vergognato. Ma mi sbagliavo"». Per capire, invece, se tra i colleghi c’è qualche omosessuale non ancora dichiarato, i gay in divisa hanno un loro infallibile strumento: «E’ il gaydar», scherza Marcello. «Un radar fatto di sensibilità speciale, che ti permette di riconoscere chi è come te, chi lo nasconde. E chi ti è ostile».


Amore, caserma e civiltà


La storia di Salvatore, infine, arriva via mail. Da Brindisi dove lavora come finanziere. Non possiamo incontrarci E così decidiamo di scriverci. Perché di poliziotti e militar omosessuali in Italia non si parla? «Ci vuole più coraggio a sfidare il giudizio, l’ostilità o la derisione dei colleghi, che ad affrontare un malvivente», scrive lui alle 2,30 del mattino. «Prevale spesso la paura del giudizio, il timore di essere trasferito per generiche "esigenze di servizio", perdendo tutto quello che hai costruito in anni e anni di lavoro» Fino all’ossessione di essere scoperto. «Per parecchie tempo ho smesso di parlare del mio privato, non frequentavo più i colleghi, dividevo il lavoro dalla mia vita personale. Questo è il prezzo che si paga per non voler raccontare bugie». Qualche giorno dopo la prima mail, tocca al telefono.

«Le convenzioni sociali ci portano inevitabilmente a mentire», spiega Salvatore con una voce che si rivela profonda, riflessiva. «La menzogna, anche se spesso necessaria, per me è una condizione troppo difficile da vivere». Poi, basta un attimo: la battutina del collega al momento sbagliato, il commento di cattivo gusto a cui non puoi più non rispondere.

Così ora tutti sanno. E Salvatore non deve più nascondere la sua sessualità. «Ma dopo 18 anni di servizio senza problemi e con ottime "recensioni" è difficile che qualcuno possa obiettare che il fatto di "amare" un uomo cambi le mie capacità». Per qualche giorno la corrispondenza s’interrompe nuovamente. C’è un confine che Salvatore, Nicola e Marcello hanno paura di attraversare. Quello tra le loro vite private e la responsabilità che sentono nel parlare a nome di tanti altri che vivono la loro stessa condizione. Gay in divisa. «Due sono le cose, l’ufficialità e l’amore», scrive Salvatore, rompendo il silenzio. «Rendere ufficiale un modo di essere vuol dire affrontare i problemi che quella condizione comporta. Se le istituzioni ufficializzassero l’esistenza dei gay nelle forze armate e di polizia dovrebbero anche ammettere implicitamente l’ottimo lavoro che svolgono e garantirgli una tutela dalle discriminazioni». L’amore invece? «Quello è un’altra cosa. Né le convenzioni sociali né tantomeno la Chiesa potranno mai convincermi che sia "peccato" provare un sentimento così puro, soltanto perché rivolto a un uomo e non a ,una donna».

Pochi mesi fa Salvatore ha partecipato al meeting internazionale dei poliziotti gay di Barcellona. La prossima edizione sarà ospitata da Parigi nel 2010. Ma lui, Nicola, Marcello e gli altri di Polis Aperta sperano di poterne presto organizzare un’edizione in Italia, invitando i rappresentanti delle istituzioni politiche e militari. Sarebbe una conquista di
civiltà.


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