Prefazione alla decima edizione di "Ragazzi che amano ragazzi"
Vent’anni dopo
Come molti, ho capito abbastanza presto che ci sarebbero stati libri che mi avrebbero accompagnato tutta la vita. Meglio, cambiato la vita. Non avrei mai immaginato che uno di questi lo avrei scritto io.
Avevo 34 anni quando ho cominciato a scrivere Ragazzi che amano ragazzi, oggi ne ho 54. Una vita, appunto. E questo libro vive, continua a vivere nelle librerie, nelle biblioteche, negli incontri, nelle lettere che ricevo. Come nuovo. Come venisse stampato oggi non per la decima, ma per la prima volta.
Negli ultimi anni, mi sono trovato a dover rispondere sempre più spesso a due domande: sei contento? E: ma allora, cosa è cambiato in questi vent’anni? Nei ragazzi omosessuali, nelle famiglie, nella società.
Non è stato facile rispondere a nessuna delle due. Entrambe mi hanno costretto a pensare, interrogarmi, scavare più a fondo, capire. E così questo libro mi ha fatto crescere. Ne sono diventato anch’io in qualche modo sempre più lettore che autore, una sensazione strana, rara credo, bella. Sono molto grato a chi mi ha obbligato a questa meravigliosa fatica. E oggi posso rispondere idealmente a tutti i lettori, non solo a qualcuno, in una mail o in una presentazione o a un convegno.
Sono contento come scrittore. Quale autore non lo sarebbe? Che un libro viva più a lungo possibile è il sogno di chiunque scriva e pubblichi. Ma questo è un libro speciale, per molti versi. Siete stati voi, del resto, voi lettori ad avermelo fatto capire più di quanto avrei mai potuto da solo. E allora devo anche dire che non sono affatto contento. Come uomo, come cittadino. Perché se ancora tanti, troppi ragazzi si riconoscono in queste storie di vent’anni fa – quando non c’era internet, non c’erano, almeno capillarmente come oggi, né l’Arcigay né l’Agedo né le Famiglie Arcobaleno, non c’erano quasi libri, non c’erano i mille film e telefilm che oggi raccontano una "condizione" omosessuale serena e a volte felice – se troppi ragazzi ancora si riconoscono in queste storie significa che il poco o tanto che è cambiato non basta. Il dolore è ancora troppo, la fatica altrettanto.
Io ero convinto, nel 1991, e mi auguravo – se non da scrittore, da cittadino, appunto – che questo libro invecchiasse nel giro di pochissimi anni. Venisse ricordato come documento storico di un’epoca superata. Non è stato e non è così, e la società (soprattutto quella italiana), e la chiesa (soprattutto quella italiana), ne portano la colpa, il peso, la responsabilità schiacciante. Prima o poi ne dovranno rendere conto.
D’altra parte, solo un cieco potrebbe non vedere il tanto che è cambiato, nell’esperienza personale e collettiva.
Allora, com’è? Come stanno le cose?
A un certo punto, dopo lungo scervellarmi, mi ha colpito un’immagine, come una folgorazione. Mi sono reso conto che non incontravo mai ragazzi – o genitori, famiglie – che vivessero nel presente. A volte mi sembravano ragazzi già belli accovacciati nel futuro, diciamo in un ipotetico e fantascientifico 2028 (quando verrà data alle stampe la ventesima edizione di Ragazzi che amano ragazzi). Ragazzi omosessuali che a sedici anni avevano già il fidanzato, lo avevano presentato a genitori entusiasti (o magari indifferenti), e nessun bisogno di nascondersi, a scuola, in parrocchia, in vacanza, al cinema, ovunque. Altre volte, la solitudine e l’angoscia dei ragazzi di oggi mi precipitavano nelle cupe atmosfere degli anni Cinquanta. (Erano cupe, lo affermo senza sfumature e senza spiegare, ma devo riaffermarlo, visto che qualcuno continua pubblicamente a rimpiangere gli "antichi castighi").
Allora? Com’è? Come stanno le cose?
Penso stiano esattamente così.
Nelle epoche di transizione – più o meno lunghe, più o meno dolorose, più o meno cariche di vittime innocenti – è così che le persone vivono. Mai, nessuno, nel presente. Qualcuno ancora nel passato, qualcuno nel futuro che – speriamo – si sta costruendo. Bisogna solo saperlo, e – mentre si dà aiuto e sostegno a coloro che si sono attardati, senza loro colpa ovviamente – bisogna guardare, e dare visibilità, anche a coloro che sono già là davanti, come segno di speranza e motore del cambiamento.
Ma non era solo questo.
A un certo punto mi sono dato del cretino. Sì, del cretino. Perché mi sono detto: ma come ho potuto pensare, come ho potuto illudermi che un tabù così radicato nei secoli, un tabù che affonda le radici nei due grumi forse più tosti con i quali l’umanità deve fare i conti da sempre – il sesso e la religione – come ho potuto pensare che una faccenda così radicata nel nostro inconscio personale e collettivo (si dice così, pare) potesse essere realmente disintegrata, non solo scalfita, scheggiata, proprio disintegrata e sconfitta e digerita nel giro di pochi anni, uno o due decenni, grazie a qualche Gay pride e magari un po’ anche a un libro come il mio?
Se c’è poco da fare sul primo punto, c’è forse ancora meno sul secondo. Forse solo il tempo, "il gran guaritore"… (ma molto tempo, quel tempo che non si può misurare in mesi o anni, ma in decenni). Però saperlo è importante. È importante per avere chiaro contro cosa combattiamo, ed è importante per le singole persone, per i singoli ragazzi.
Non si meraviglino, e non si spaventino se, la prima volta che davanti allo specchio diranno a se stessi "sì, sono gay", si sentiranno male. Magari saranno tra i fortunati cui la botta passerà alla svelta, ma il primo impatto sarà durissimo in ogni caso. Perché in quel momento si misureranno, senza saperlo, con l’orribile secolare tabù, davvero una gran brutta bestia, che non può non fare paura, non chiudere lo stomaco. Almeno per un paio d’ore.
E a questo punto c’è il "tema" dei diritti. Eh sì. Perché ciò che non è cambiato nemmeno di un millimetro, ma proprio niente, in vent’anni, sono proprio i diritti – inesistenti – delle persone omosessuali. Qui la scusa del tabù non vale, assolutamente. Anzi, questo nulla, questo immobilismo, questa inciviltà sono così odiosi scandalosi intollerabili che per la prima volta – presentando di nuovo questo libro che non è mai stato e non ha mai voluto essere un libro militante, e lo ripeto per onestà verso chi il militante lo fa, io faccio solo lo scrittore – per la prima volta, dunque, voglio dirlo, devo dirlo, quasi gridarlo: lo stato, i partiti, le istituzioni, gran parte delle chiese si vergognino. Punto. Non c’è altro da spiegare. Giocano con la vita, e con la morte, delle persone, degli adolescenti, di giovani uomini e di giovani donne.
Di fronte a queste storie, dovrebbero chinare il capo, chiedere perdono e vergognarsi. Poi fare qualcosa. Anzi, non qualcosa. Tutto. Tutto e subito. Perché sarà sempre troppo poco e troppo tardi.
Reggio Emilia, 27 settembre 2008