Arcigay.it offre ai suoi visitatori u'anteprima del libro "Gelati di passione" di Roger Salas, autore cubano che da 15 anni vive a Madrid dove lavora come critico di danza per "El Pais". Il libro verrà pubblicato tra pochi giorni dalla Voland Edizioni, casa editrice romana.
I sedici racconti contenuti nel'opera sono ambientati a Cuba, in u'Avana derelitta e grandiosa, affollata di omosessuali, travestiti, poliziotti, ballerine, contesse antillane. Sulla base del'ultimo anno a Cuba di Roger Salas, Senel Paz ha scritto un racconto da cui i registi Tabio e Alea hanno tratto il film "Fragola e cioccolato".
Per informazioni potete contattare:
VOLAND EDIZIONI
Via del Boschetto 128/129 – 00184 Roma
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Qui di seguito pubblichiamo integralmente uno dei racconti: Anonimo Avanese ed una breve biografia di Roger Salas.
ANONIMO AVANESE
L’angolo delle Marie
Con un’abilità sconosciuta l’Ebreo mi buttò sul materassino bagnato, mi afferrò i polsi e mi bloccò le caviglie nella morsa dei suoi polpacci. Era come avere sopra un camion Pegaso, per il peso e l’odore. Iniziò a muoversi come in una danza africana a due tempi fino a che con la punta del cazzo trovò il buco del mio culo e lo lasciò sazio, ripieno e un po’ malconcio.
Allora mi fu possibile dire “e la mia vita cambiò a partire da quel momento” soprattutto perché smisi di averne paura. Di colpo mi trasformai da fallocrate teorico a puttana da parco. Non ebbi il tempo di elaborare il passaggio da un atteggiamento all’altro: dall’andare in quel luogo come spettatore tangente e criticone, passai a far parte della confraternita. Contrattai i servizi di quell’uomo perché ero ingordo, lui era il più grande di quelli che frequentavano quel posto e pensai, se inizio, che sia alla grande.
Ed effettivamente, sebbene non possa parlare di violenza carnale, l’erculeo armadio di muscoli si accorse che per me era una novità e questo pare che lo ispirasse a darmi non solo quello che meritavo e per cui pagavo, ma un po’ di più. Già allora, suscitare una certa pena iniziò a produrre risultati straordinari. Non dimenticherò mai il mio primo dialogo socratico con quella statua (e statua non è un appellativo ellenico ma si riferisce a una certa catatonia che lo caratterizzava fuori dai minuti frenetici della danza yoruba suddetta):
— Hai avuto molti uomini come me? — chiese pieno di orgoglio e passione mentre scendeva da cavalcioni.
— Vari — risposi con calcolata indifferenza guardando la luna di latta attaccata al soffitto e parzialmente illuminata di rosso dal falò di trovarobato riprodotto con due lampadine dipinte e sei tronchi di cartongesso.
— Lo sapevo io che non eri vergine! — ruggì con la stessa enfasi con cui Archimede gridò “Eureka!”
— E cosa ti ha fatto pensare che potevo essere vergine? — dissi
ottusamente offeso. — Mi sono forse comportato da inesperto, inetto, novellino, prevenuto o militante di una qualche organizzazione politica?
— È’ che essendo così brutto, non pensavo che qualcuno si sarebbe dato da fare per iniziarti — mi spiegò aggiustandosi il parrucchino.
— Beh, ti sbagli: sui gusti non si discute — commentai.
— Già, anche l’immondizia ha i suoi clienti — mi rispose. Ma quell’acume e quella rapidità nel rispondere furono un lampo d’intelligenza che si esaurì subito e per sempre.
L’Ebreo era un marinaio a terra, un tipo gigantesco che tutti cercavano di rimorchiare nel bar di fronte fino a che lui non divenne un habitué e allora aveva preso a venire all’angolo fra via dell’Industria e via di Amistad due volte alla settimana. All’inizio lo pagavo. Per queste vicende tragi-curiose della vita di un invertito, in questo affare, anche il rapporto commerciale era cambiato: ero io che pagavo e che tuttavia ricevevo all’orecchio decine di volte un ordine imperioso accompagnato da quell’antico epiteto: “Muoviti, troia” mentre si svolgeva la transazione nel vestibolo che la Muta ci affittava per due pesos, uno spazio arredato secondo canoni estetici sconosciuti, davanti a cui ci furono reazioni che andavano dall’impotenza (anche se momentanea) alla resa incondizionata a una nuova corrente nel campo delle arti applicate (direi ‘applicatissime’, ma non voglio esagerare).
La Muta non era muta, ma poche volte nella storia un soprannome e una simulazione erano state così utili e giuste come in questo caso. Bisognerebbe far presente che la Muta, prima di decidersi a essere muta, era stata cieca e paraplegica. La cecità le recava problemi di comunicazione e la paraplegia, come indica la parola, di locomozione, il che per una checca, la cui missione è inseguire uomini, rappresentava un serio problema logistico. D’altra parte, il paraplegico è accompagnato dalla pompa magna delle stampelle e /o dalla sedia a rotelle e i bagni pubblici sono soliti avere porte molto strette.
L’Ebreo si fece amico delle checche e di altre che in alcune occasioni avevano difeso la flora notturna dai borseggiatori del quartiere che in questo periodo della Grande Offensiva Rivoluzionaria aggredivano le donne anziane e se non riuscivano a sfilare un anello tagliavano direttamente il dito. L’Ebreo era un bonaccione, un imbecille puro, addirittura sbavava quando ce l’avevi sopra e l’idea che sbavasse di piacere mi deliziava. Era giunto al bar senza un passato conosciuto e lo vedevo sempre arrivare dallo stesso posto, un vicolo di via di Apodaca, un paesaggio in cui s’inseriva con la stessa naturalezza delle mucche nel panorama svizzero.
In fondo a via di Apodaca, quasi all’altezza del brusco incrocio con lo scalo ferroviario, c’era un quartiere di case basse e scolorite tutte ammassate e con le finestre aperte; dietro, qualcuno fumava ascoltando la sudicia miscela del rumore dei camion, Radio Reloj o un qualche bolero, le gru che non dormono e un mormorio che poteva essere il mare, un mare consumato e vecchio, pieno di schifezze come le fogne in cui sguazzavano i cani randagi in cerca di cibo. Sembrava che dietro ogni porta ci fosse sempre una Muta ad affittare un posto perché un stivatore ti spiaccicasse le ‘illusioni’ per terra o sul muro. Raquel la Tisi chiamava ‘illusioni’ qualsiasi imbizzarrimento della carne. Diceva: “Oggi ho avuto tre illusioni di seguito, che sfinimento!”
Così quella parola entrò nel gergo dell’Angolo delle Marie, come qualcuno chiamava il Quartier Generale delle ultime checche dell’Avana: l’angolo più appartato del Parco della Fraternità, in posizione strategica per poter fuggire, dominare tutta la piazza o semplicemente incamminarsi verso il quartiere in basso, il porto. La repressione poliziesca, le pattuglie a piedi e altre formule di vigilanza usuali, avevano costretto noi checche a optare per l’oscurità, il che non era difficile se si tiene conto che nelle gallerie di via del Monte non rimaneva accesa una sola lampadina, e potevi zigzagare tra le colonne o correre gridando per isolati immensi, sotto gli archi, senza attirare l’attenzione se non quella dell’obiettivo inseguito: in generale, un uomo indeciso che preferiva essere abbordato un po’ più giù tra due pilastri e non nel compromettente spazio aperto del parco, dove tutto quello che succedeva, se era di interesse per i travestiti, diventava notizia, come era accaduto nel caso di Manel Ras, ma questa è un’altra parte della storia che ha il suo posto più avanti, già nel periodo della guerra tra le Zafias e le Pellejas, due tribù avanesi che emularono la guerra antica e colta delle bande più illuminate della storia di Cuba: le Ballettomani Fanatiche contro le Ballettomani Scientifiche, ma anche questa è un’altra guerra con i suoi martiri e le sue eroine.
La via del Monte, un’antica arteria commerciale della città, correva lungo il Parco della Fraternità dal lato basso, un insieme di siepi fitte, giardini bassi, settori alberati e al centro una vecchia quercia concimata con la terra di cento paesi (almeno questo diceva l’iscrizione in bronzo che decorava il cancello di protezione ora coperto di preservativi usati, feticci di stregoneria abbandonati e altri rifiuti esotici). Dagli altri tre lati era delimitato dal tetro Palacio de Aldama, dal Capitolio Nacional e dalla Fuente de la India. Questi ultimi, essendo di durissima pietra di Arroyo Naranjo e di marmo, avevano resistito con il loro stoico biancore al deterioramento generale che faceva sembrare il parco un bosco disincantato di rami rotti, foglie marce e pietre sparse che un po’ più in là si perdevano tra le impalcature di edifici in rovina o nei terreni abbandonati ricolmi delle più varie immondizie e nella lunga serie di spaventapasseri che vivevano addossati ai monumenti o tra le erbacce. Erano mendicanti pazzi o pazzi mendicanti: l’uomo che temeva di essere portato via dal vento e si era attaccato delle pietre alla cintura; la Cina Milionaria, che raccontava come la sua fortuna fosse andata in fumo per amore; la Saetta de Güines, un nano che diceva di essere stato alto più di sei metri e che un fulmine o una saetta lo aveva rimpicciolito di colpo, oltre a vari effeminati tutti fissati sull’idea di essere donne con tanto di mestruazioni.
Il Parco della Fraternità comprendeva quattro isolati con panchine, siepi, palme reali, statue di Bolívar e Sucre, alberi centenari e poche luci. I lampioni parevano fantasmi barocchi con le loro filigrane in ferro battuto che si stagliavano nella notte rossastra. A volte, di notte, sembravano accesi, ma poi succedeva qualcosa: una mano amica, o la pioggia, o l’effimera qualità delle candele coreane (del Nord) restituiva al parco e ai suoi dintorni la tenebra propizia ai nostri affari. Il Parco della Fraternità era un classico omosessuale. Una delle Sofisticate diceva che l’aveva fatto un finocchio per la gioia dei finocchi. Le Sofisticate erano un numero indeterminato di esseri della parte lussuosa della città che venivano fin qui in cerca dell’unica cosa che si poteva trovare: un uomo che ti stropicciasse un po’, magari su una panchina, dietro il piedistallo di Bolívar o sul materassino della Muta. Tra le Sofisticate c’era di tutto: medici, scrittori, architetti e anche alcuni ballerini di danza classica in pensione. Erano attese sempre con ansia nell’Angolo delle Marie dove s’improvvisava un ufficio di consulenza su un pene che suppurava, un tetto che cadeva o un fouetté della Alonso, e c’è da dire che non cercavano di mostrare la propria superiorità — se non nell’uso eccessivo di profumi francesi — si adattavano, sapendo, senza dirlo, che se esiste una circostanza della vita in cui tutti siamo davvero uguali, è questa. La nostra cortesia si manifestava con qualche dritta su nuovi esemplari di avocadi. Gli Avocadi erano i soldatini del Servizio Militare, che arrivavano a plotoni dall’altra parte del parco in cerca di un culo o di un peso. Non mettevano piede nell’Angolo delle Marie, si facevano vedere in tutto il loro splendore a cinquanta metri di distanza e allora noi attaccavamo lo schieramento da tutti i lati con le formule universali e sempreverdi come “Vuoi una sigaretta” o “Sai l’ora?” A volte nemmeno questo. Insomma, lì sapevamo tutti quello che volevamo e perché restavamo a infradiciarci sotto la pioggerellina. Pioveva molto sul Parco della Fraternità. A volte un acquazzone da giudizio universale si rovesciava su tutta l’area del parco, camminavi cento metri più in là e non cadeva nemmeno una goccia. Una delle Sofisticate, un poeta, Panchón Tarrat, dietro le sue lenti a fondo di bottiglia punteggiate di gocce d’argento, diceva sempre: “Probabilmente è un segnale dall’alto il fatto che piova solo qui”. Siccome nessuno commentava, si rispondeva da solo: “O forse è una sorta di purificazione naturale”. Il poverino, scrutava la notte in cerca di qualcosa da portarsi alla bocca facendosi vivo con una certa frequenza nell’angolo più universale di tutti gli angoli della città. Tanto che più di una marchetta gli si avvicinava con un libretto di istruzioni in lingua straniera di una lavatrice o di un orologio per farglielo tradurre. E di solito lo pagavano in natura. Panchón in questo era un maestro, era davvero poliglotta e le persone che volevano sapere a cosa servissero i pulsanti di un registratore nuovo non mancavano mai. C’era gente che con un’intenzione quasi offensiva chiamava il Parco Il Mercato della Carne, cosa che a volte diede luogo a equivoci. Il Mercatino era infatti un altro angolo e lì succedevano cose molto diverse.
In quel periodo all’Avana le marchette delle varie categorie si facevano pagare solo in dollari e in natura, anche un paio di jeans, un disco dei Rolling o una bottiglia di whisky, qualsiasi cosa dell’area dollaro era moneta di scambio accettata dai bei mercanti degli alberghi per turisti. Ma non sempre erano disponibili questi tesori di consumo per pagare i servizi dei nuotatori di Marianao (una razza già famosa per la qualità del materiale e la maniera di lavorare a letto), così che alcuni signori del quartiere di lusso di Miramar diffusero la moda di pagare con anticaglie. Da qui nacque il soprannome di Luisito, detto Teiera, che molti mettevano in relazione con la larghezza del suo strumento di lavoro, ma che in realtà si riferiva al fatto di presentarsi spesso con una teiera, a volte d’argento inglese, altre di porcellana di Vienna, ravvolta nelle prime pagine del “Gramma” per depistare i poliziotti curiosi. Luisito diceva: “Chiedo sempre una teiera, così è difficile che mi freghino e che mi diano una porcheria che non si possa vendere”.
Le anticaglie si scambiavano facilmente con cose straniere e cibo. Ambasciatori, segretari d’ambasciata o le loro spose con anonime borse traboccanti di Levis e Lacoste false si avventuravano fino al Mercatino. Quando i traffici dell’angolo diventarono troppo evidenti, la Muta cambiò affari e si dedicò all’antica arte del baratto: un servizio di posate d’argento per due Levis e due casse di cognac; due vasi di Sévres del secolo XVIII per un televisore (a colori naturalmente) e dieci pantaloncini colorati, e in questo modo passarono da lì oggetti di musei e gioielli che avrebbero fatto impallidire un intenditore parigino.
Un giorno un ragazzo biondo, con qualcosa di accartocciato sotto il braccio, si spinse fino al vestibolo della Muta. Io ero lì, passavo le ore morte nel tentativo di ricavare qualcosa da quel bel giro d’affari, e a volte la Muta aveva bisogno di opinioni esterne per stimare la mercanzia.
— Cos’hai? — chiese la Muta con la sigaretta attaccata all’unico dente che aveva.
— Questo mi è costato una settimana di lavoro — argomentò il ragazzo per dar valore al suo bottino mentre srotolava la tela dal quale balzarono via delle schegge di pittura secca. In quel momento Panchón Tarrat era occupato con un cliente mulatto, sua perdizione e specialità. Quando vide cosa stavamo stendendo sul pavimento, lanciò un grido da cicogna agonizzante:
— Il Zurbarán dei Mendoza! Cosa ci fa qui?!
— È’ mio — disse la marchetta dai ricci dorati.
Panchón deglutì due volte e lo guardò da sopra gli occhiali appannati:
— Non mi dire! Sei l’erede dei Mendoza? — e si avventò sulla tela guardando e toccando con la stessa avidità che avrebbe usato sul mulatto che osservava la scena da un angolo. — Se ti beccano con questo, ammuffisci nel Morro — sentenziò Panchón pulendosi gli occhiali.
— Bene, bene — intervenne la Muta — lasciamelo che vado a cercare un cliente come si deve. Qui ce n’è per tutti…
— Non voglio Levis — disse il biondo guardando attentamente il naso aquilino della Muta — voglio un visto!
— Un cosa? — disse la Muta arrotolando il quadro senza il minimo riguardo. Per lui aveva lo stesso valore di un prosciutto.
— Un visto per andarmene — ripeté la marchetta dorata mentre io e Panchón lo divoravamo in duetto con lo sguardo esperto da dottori di medicina interna.
— Questo non è l’Ufficio Emigrazione, bellezza. Una cosa è fare intrallazzi, un’altra mettersi in politica. La Muta si stava incazzando.
— Politica? Che cazzo c’entra la politica? Dammi il quadro, che me la so sbrigare da solo! — il ragazzo era nervoso. Suonarono alla porta con tre squilli brevi e due lunghi, il segnale amico.
— Come vuoi.
La Muta buttò il quadro in terra, andò alla porta d’ingresso, aprì e si mise a parlare con due negri. Poi si girò e gridò:
— E in questa casa non una parola di quello che hai detto, io sono pulito, grazie a Dio!
Panchón se la squagliò nella stanza del carbone con il suo mulatto e io rimasi da solo con le due opere d’arte: il biondo ancora grondante di pioggia dai riccioli e il quadro del santo irriverentemente buttato a terra.
— Toglilo da lì, che l’umidità lo può danneggiare — dissi cercando di proteggere il patrimonio artistico dell’Umanità.
— E chi se ne frega! Di’ a questo stronzo che mi aiuti. A te t’ascolta, no? — e indicò con il mento la Muta che continuava a discutere del prezzo di alcuni orologi di plastica mentre, come se niente fosse, metteva la punta a stiletto delle sue scarpe di finta pelle sul quadro come per evitare che tentasse di fuggire.
— La Muta è fatta così. E per dove lo vuoi il visto?
— Per l’estero, per andare via… — il biondo si toccò le palle.
Questo gli dava sicurezza. Allora iniziai a guardarlo con altri occhi.
Non doveva avere nemmeno vent’anni e non era molto alto, conservava molti dettagli di bambino cresciuto, nonostante il corpo traboccasse solidità muscolare. Il viso aveva una certa grazia, con un sopracciglio tagliato e dei piccoli peli biondi che gli costellavano la cicatrice. Non si radeva, ma non era nemmeno glabro. Un’ombra dorata gli affilava il mento e metteva in risalto la fossetta. Era onestamente bello, e rendendosi conto che lo stavo sottoponendo a un interrogatorio visivo di terzo grado, abbassò lo sguardo in un gesto che cancellò tutta l’arroganza della sua figura, restituendolo alla sua vera età e alla sua condizione di uomo non ancora fatto.
— Come ti chiami? — dissi senza distogliere lo sguardo dalle sue mani.
— David — borbottò; alzò di nuovo lo sguardo e anziché sfida, vi trovai qualcosa di pulito e sporco allo stesso tempo, corrotto e onesto insieme. Era semplicemente bello, e questa era una cosa che riusciva sempre a confondermi al punto che non riuscivo a distinguere un bruto da un curato. David riprese a massaggiarsi le palle con un gesto guerriero che conoscevo, e sputò con disprezzo nell’angolo.
— Lascia il quadro alla Muta. Andiamo al porto.
Più che invitarlo, lo trascinai in un bar dove ogni tanto proponevano salsicce unte con vini sovietici; si chiamava Taverna Spagnola e lì ci appoggiammo al banco, giocando con lo spesso strato di grasso delle salsicce sul piatto di alluminio, mentre io cercavo di fargli ingurgitare la maggiore quantità possibile di quell’intruglio rossiccio e opaco. Una volta ubriaco sarebbe stato più facile trascinarlo sul materassino della Muta o sotto il vecchio ponte delle Ferrovie Industriali, un paesaggio di rovine moderne che mi aveva sempre dato buoni risultati per il trasporto corporale. E ci riuscii. E non lo pagai. In realtà capimmo entrambi che il suo onorario era compensato dalla mia mediazione con la Muta per aiutarlo a liberarsi del prezioso dipinto… e del paese.
— Il quadro è rubato… — insinuai mentre tornavamo al parco salendo per Apodaca. David camminava sputando con forza a intervalli.
— Io non rubo. Questo mi basta — e si strinse con forza le palle un’altra volta per ricordarmi la bellissima ‘illusione’ con cui mi aveva ossequiato minuti prima.
— Così ti strozzi la merce — cercai di scherzare, ma David era serio, e proseguiva accontentandosi di alzare gocce d’acqua sporca dalle pozzanghere con i suoi stivali di gomma e le fibbie in ottone argentato e di ruttare sulla mia spalla senza il minimo pudore, ricordandomi gli esatti odori della salsiccia e del vino del grande fratello sovietico.
Entrammo nel Parco della Fraternità e cercammo una panchina.
Avevo male alle ginocchia e stava albeggiando. Da lontano vidi l’Ebreo addentrarsi tra le aiuole di dalie con un frocio, probabilmente un anziano. Da lontano e di notte, poco importava sapere con chi l’Ebreo andasse ad assicurarsi la colazione.
— Hai dove dormire? — chiesi a David che già sonnecchiava continuando a proteggersi le palle con le mani.
— Sì e no… — rispose con gli occhi chiusi.
“Un’altra volta il bene e il male, quello che vuoi e quello che non…” cominciai a pensare. Ma caddi nella trappola e lo invitai a salire nella mia stanza dell’antico albergo Montserrat. Lì si spogliò, si mise a letto senza parlare e dopo due minuti stava russando sul mio collo. “Almeno questo è meglio dei rutti” pensai, e mi addormentai.
Al mattino mi svegliò la sua lingua che trafficava tra le mie natiche, il che non poté non sorprendermi. Per alcune ore avemmo quello che Raquel la Tisi avrebbe chiamato “un rosario di continue illusioni ”. Alla fine David si girò verso il muro e prima di riaddormentarsi mi disse:
— Ti sarai accorto che non è una prestazione…
— Non penso di pagarti, non te l’ho chiesto… — iniziai a protestare, ma mi interruppe:
— Voglio dire che non sto lavorando ma sto semplicemente facendo scorrere lo sperma, capisci? — e sorrise. Il grosso bastardo aveva denti perfetti. Mi alzai, misi uno straccio nero sul vetro della finestra e puntai ai suoi pantaloni. Era un rito che bisognava sempre compiere con gli uomini che ci si portava a casa. Nelle tasche c’erano soldi e una carta d’identità che, se non era falsa, dimostrava che David non aveva ancora compiuto diciassette anni, e secondo le leggi cubane e nonostante le leggi della natura, era minorenne.
Le gambe presero a tremarmi. Era l’unico terreno sacro che nessuno di noi calpestava, giacché solo una era la risposta se ti beccavano: la fucilazione.
David uscì dalla doccia grondando acqua e giovinezza, si vestì senza asciugarsi, aprì la porta e sparì per sempre. Aveva quello che voleva, un passaporto con visto per andar via da Cuba. Anch’io avevo ottenuto quello che volevo, così che per una volta, l’equilibrio universale non si rompeva sulle corna di una checca. Tornai all’Angolo delle Marie in silenzio e nessuno mi chiese dove mi ero ficcato in quei giorni. Alla fine, le rivolte dell’Ambasciata del Perù e le voci che parlavano di molti morti, mi fecero pensare che David era stato molto fortunato a trovare un Zurbarán nella sua vita.
Roger Salas è nato a Holguìn, Cuba, il 16 ottobre 1949, da genitori di ascendenza barcellonese e dell’isola di Majorca. Ha lavorato per diversi anni nel Museo Nazionale di Belle Arti dell’Avana ed è stato per più di un anno nelle carceri di Fidel Castro. Finalmente nel 1981 riesce ad emigrare in Europa con una ricca produzione letteraria inedita che non aveva potuto pubblicare nel suo paese.
Critico di danza e moda per El Pais per cui lavora da 16 anni, ha vissuto prima a Milano, dove ha lavorato nell’ambito della moda e nello studio di architettura di Vittorio Garatti, che considera il suo principale maestro. Tra il 1989 e il 1992 ha assunto l’incarico di Consulente Nazionale per la danza presso il Ministero della Cultura spagnolo e ha redatto il progetto di Danza e Balletto per la Expo Universal di Siviglia del 1992. Ha anche collaborato con l’Enciclopedia Treccani delle Arti. Corrispondente in Spagna per le riviste Balletto Oggi (Italia) e Ballet 2000 (Francia), Salas è professore di Storia della Danza presso l’Istituto di Musicologia dell’Università Complutense di Madrid SGAE.
Realizza sporadicamente scenografie e costumi di opera e balletto per diversi teatri in Europa e America, ha recentemente collaborato con il Balletto di Torino e il Balletto di Sicilia, rispettivamente per produzioni su Andy Warhol e Pier Paolo Pisolini. È Consulente Artistico del Festival Internazionale del Balletto di Miami e responsabile culturale per il mensile spagnolo gay Zero.
In Spagna ha pubblicato la raccolta di racconti Ahora que me voy (Ed. Libros del Alma, Madrid 1996), nel dicembre 2002 apparirà il suo primo romanzo: Florinda y los boleros de cristal (Ediciones de La Tempestad, Barcelona) e I saggi del critico, con studi su danza e balletto.
Ultimi lavori di scenografia e costumi:
“Goya Divertissement” / Teatro Kirov-Marinskij, San Pietroburgo, 1996.
“El Jardín de los Gritos” / Festival Internacional de Granada, 1997.
“Don Quijote” / Opera del Teatro Real, Madrid, 1998.
“Giselle” / Balletto di Zaragoza. 1999.
“La Fille mal Gardée” / Introdans, Arhnem, (Holanda) 1999.
“Passolini en la era de Internet” / Balletto diSicilia (Italia) 2000.
“Gee Andy” (Andy Warhol Show) / Balletto di Torino (Italia) 2001.
“Caravaggio” (in preparazione: Temporada 2002-2003) Balletto di Torino.
Collaboratore abituale per le riviste:
“VOGUE España” (moda).
“GQ” (moda)
“VANIDAD” (moda e opinione).
“ZERO” (recensione di libri).
“BALLETTO OGGI” / “BALLET 2000” (critica di danza).
Testi commissionati dal Teatro alla Scala (Milano), Festival di Spoleto, Teatro Romolo Valli (Reggio Emilia), Teatro San Carlo (Napoli), Teatro Bolščoj (Mosca), Teatro regio (Torino), etc.