Business is business. E che per gli americani gli affari sono affari, non ci sono proprio dubbi. Magari su una legge per estendere i diritti delle persone qualche dibattito lo si fa pure, ma quando c’è di mezzo qualche dollaro la morale fa un passo indietro. Se, poi, di mezzo c’è una cifra da capogiro, 450 miliardi di dollari, nessuno oserebbe nemmeno bisbigliare un dubbio: meglio tuffarsi per spartirsi il bottino. Questo debbono aver pensato le più grandi aziende a stelle e striscie una volta individuato, e fatto censire, il bacino d’utenza dei gay americani. Secondo i dati forniti dall’istituto Pangea, negli Usa la popolazione omosessuale è stimata tra i 17 e i 22,5 milioni di persone (su un totale di oltre 281 milioni di abitanti) e dai rilevamenti del Census (l’Istat americano) nel 2000 erano presenti 594.391 nuclei familiari composti da persone dello stesso sesso, con un reddito medio di 85.400 dollari l’anno, più del doppio di quello delle coppie etero. Si fa presto a fiutare l’affare, soprattutto dopo che un’altra ricerca, stavolta del Greenfield Reserch & Kinsey Report, afferma che il 94 per cento della popolazione Glbt (gay, lesbiche, bisex, transgender) preferisce spendere il suo denaro in favore di compagnie orientate verso il pubblico omosessuale. E ecco che i grandi marchi dell’economia statunitense hanno cominciato a intraprendere una politica gay friendly, che ha cioè un occhio di riguardo per la clientela gay. In una classifica stilata da The Gay Financial Network i primi tre posti sono occupati da American express, Disney e Microsoft.
Questa è l’America, ma in Italia esiste un mercato gay oriented? I presupposti ci sarebbero tutti: un made in Italy, nella moda e nel design, realizzato sostanzialmente da creativi omosessuali, una popolazione Glbt di circa 5 milioni di abitanti, una disponibilità economica più alta della media. Eppure, in Italia, nessuno sembra aver fiutato davvero l’affare. Possibile che le industrie, soprattutto in un periodo di scarsi guadagni, non vogliano curarsi un target così appetibile?
«Il problema italiano – ci dice Franco Grillini, presidente onorario dell’ArciGay e parlamentare Ds – è culturale e politico. Subiamo ancora un’omofobia di stampo cattolico alla quale va ad aggiungersi una destra aggressiva al governo che sconsiglia, direttamente e indirettamente, i grandi marchi a investire sul mercato omosessuale. C’è poi anche una causa tutta interna alla comunità gay italiana che, nonostante le proporzioni, non è mai riuscita a divenire una massa critica, come a New York o a Parigi, capace di esercitare una forte pressione sulla politica e sull’economia». Eppure negli ultimi tempi molti spot sembravano aprire al mondo gay: una gomma da masticare che, tanto è potente, fa abbracciare due giovanottoni pieni di muscoli o la lesbo-story del Martini rosso. «Quelle sono solo ipocrisie, ammiccamenti a un mondo gay, che fa sempre tendenza, per rivolgersi a un mercato etero. Per il pubblicitario – aggiunge Grillini – scimmiottare l’universo omosessuale significa trovare un modo per stupire gli spettatori. Non c’è, viceversa, alcun investimento vero nel mercato gay». Che pure, almeno paragonandolo a quello degli altri paesi, dovrebbe essere più ricco. «Sì, ma non perché i gay siano più ricchi degli altri. Nel nostro paese la popolazione Glbt è trasversale a tutte le classi sociali, ha però una capacità maggiore di spesa perché un omosessuale, soprattutto se vive ancora in famiglia, può investire in consumi quasi tutto il suo stipendio. E comunque – conclude Grillini -, anche quando vive da solo, non ha dei figli da mantenere e può spendere in cura del corpo, viaggi, tecnologie, cultura e divertimento».
Eppure le aziende sembrano sorde, anche quelle che più sono nel cuore dei gay italiani, come la Diesel, marchio top nell’abbigliamento casual. Non avendo un direttore marketing disposto a parlare, il responsabile dell’ufficio stampa ci risponde: «Ci fa piacere che i nostri vestiti siano apprezzati dai gay, ma non abbiamo una strategia mirata a questo tipo di target». L’imbarazzo è palpabile e non insistiamo un minuto di più.
Una motivazione più tecnica di questa chiusura la fornisce invece Annamaria Testa, una delle maggiori creative della pubblicità italiana, che a Mimmo Baldini – curatore di un’interessante inchiesta per AlaEst (disponibile su www.alaest.com) – ha risposto: «Perfino le aziende più bacchettone sono in cerca di nuovi target interessanti e certificati, e quando li trovano sono pronti a investire senza troppi dilemmi morali. Credo invece che il problema sia tutto nella certificazione quantitativa e qualitativa». Anche se, subito dopo, aggiunge: «In Italia abbiamo, non dimentichiamocelo, i cattolici, il Papa, un governo di destra e una cultura di massa in cui i gay vengono ancora intrappolati in stereotipi orrendi».
Ad una lentezza del mercato tradizionale corrisponde, però, una certa dinamicità dell’economia di gay per i gay. In primo piano ci sono, naturalmente, i luoghi del divertimento (138 fra discoteche, bar e saune, concentrati soprattutto al centro-nord) molti dei quali promossi da circoli omosessuali culturali e politici, ma non mancano, negli ultimi anni, anche vere e proprie aziende di carattere commerciale. È il caso dell’agenzia di viaggio Queer Nation Holidays di Firenze. «L’idea di mettere su un gay-operator mi è venuta sei anni fa – ci spiega il proprietario della Queer Francesco Gasperoni- perché volevo conciliare la mia militanza nel movimento omosessuale con il lavoro e pensavo che più sportelli di visibilità vengono aperti, minore è la paura di dichiararsi gay. Tre anni fa abbiamo iniziato a stampare il primo catalogo con le proposte di pacchetti di viaggi. Oggi il 60 per cento del fatturato della mia agenzia deriva proprio dal mercato gay». Ma chi sono i suoi clienti? «Soprattutto uomini, dai 20 ai 70 anni, anche se i nostri clienti migliori sono fra i 25 e i 45 anni mentre le mete preferite sono le isole della Grecia, la costa spagnola, il Messico e il Sudafrica. La nostra rete di hotel gay e gay friendly è molto vasta e va da alberghi molto economici a guest house di gran lusso come quella di Città del Capo o quella di Acapulco in un’ex casa di Gloria Gaynor, vera e propria icona gay». Ma Gasperoni fuga l’idea di una clientela di lusso. «È vero che c’è chi è disposto a spendere 7mila euro per una settimana, ma noi offriamo anche viaggi a Sitges a 400 euro a settimana: ce n’è per tutte le tasche. E poi, una caratteristica della clientela gay è la grande capacità di adattamento alle situazioni. Chi parte vuole andare a divertirsi e a cerca luoghi di socializzazione. Sono molti gli albergatori che mi chiamano per dirmi che i gay sono i loro clienti ideali».
Ma il vero “caso”, con i suoi 700mila euro annui di fatturato, è il portale gay.it. Sopra ci trovi di tutto, dalle news alle chat, dai sondaggi, al commercio elettronico, alla pubblicità di negozi e locali. Il guru di gay.it, Alessio De Giorgi, qualche insersionista “di peso” l’ha trovato (Citroën, Microsoft) ma certo anche per lui, nonostante le migliaia di contatti giornalieri, le cose non sono facili. «In Italia siamo in ritardo anche perché non c’è mai stata una rivista gay nazionale con tirature e vendite certificate che potesse attirare pubblicità. Chi può dire davvero quanto vende Babilonia, e perché un’azienda dovrebbe mettere il suo nome accanto a quello di un sexy shop in una pubblicazione di cui si sa poco o nulla con certezza? Noi abbiamo fatto da apripista. Ricordo ancora – aggiunge De Giorgi – quando il direttore marketing di una grande azienda mi chiamò e mi disse: “ma come vi permettete di mandarmi il vostro materiale per chiedere pubblicità?”. Da quel giorno molte cose sono cambiate anche grazie ad una maggiore accettazione sociale dell’omosessualità. Ma certo, ancora oggi, in alcune aziende molti responsabili marketing preferiscono far svolgere queste pratiche alle loro colleghe donne: hanno paura che in azienda qualcuno possa dargli del gay». Gli stessi problemi di De Giorgi li ha avuti anche GayTv, la prima tv satellitare tutta dedicata al pubblico Glbt in Italia. Ma un successo strepitoso, per la novità sul mercato televisivo italiano, è stato il talk show Good As You (le cui iniziali danno la parola “gay”) trasmesso, sempre su satellite, da Canal Jimmy e costruito su un format francese. Uno degli autori-protagonisti, Sandro Cisco, ci spiega la difficoltà di ottenere uno sponsor per la trasmissione. «La tv satellitare non ha ancora un sistema di rilevazione, per cui noi non possiamo certificare il nostro ascolto. Una cosa che possiamo dire è che da quando siamo partiti Canal Jimmy ha avuto un’ampia rassegna stampa, è arrivato tra i cinque posti dei canali più graditi della piattaforma di Tele+ e che abbiamo ricevuto oltre 300 mail al giorno di incoraggiamento». Ma alle aziende i complimenti non bastano: gli sponsor, dopo un anno di programma, non sono arrivati e il nuovo ciclo di Good As You è in forse. In Italia il libero mercato c’è, quello che manca ancora è il mercato “liberato”.
I migliori clienti? Giovani e gay
Questo articolo è stato scritto il 8 giugno 2003.
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