Ecco l’intervento della dottoressa Margherita Graglia, per conto di Arcigay, in risposta a quello della dottoressa Atzori, pubblicato dalla Gazzetta di Parma di mercoledì 21 aprile 2004
Sono concorde con la dottoressa Chiara Atzori: la libertà di espressione è un valore da salvaguardare e qualsiasi dibattito pubblico è il benvenuto chiarendo però se si tratta di un confronto su opinioni scientifiche o su opinioni personali.
L’identità sessuale di ogni persona è stabilita dal sesso biologico, dall’identità di genere (il sentirsi maschio o femmina), dal ruolo di genere (i comportamenti che ogni cultura definisce appropriati per un maschio e per una femmina) e dall’orientamento sessuale. L’orientamento sessuale nulla ha a che fare con l’identità di genere. Quando la dottoressa Atzori afferma che l’omosessualità è “l’espressione di un disturbo dell’identità di genere” confonde gli omosessuali con i transessuali. Sono le persone transessuali che sentono di appartenere a un genere diverso da quello definito biologicamente e che quindi si identificano con l’altro sesso. Quando la dottoressa Atzori dichiara che l’intervento con i pazienti omosessuali è mirato a “aiutare la persona a focalizzare la sua identità di genere” ci rivela che la premessa da cui parte nel considerare l’omosessualità è, non solo insostenibile sul piano scientifico, ma è quella stereotipica che vuole i gay effeminati e le lesbiche come dei maschiacci. Molta gente la pensa così, ma non i professionisti della salute mentale. La sua opinione infatti aderisce alle credenze diffuse dagli stereotipi, ma non ha credito nella comunità scientifica.
Sembra necessario ribadire ancora una volta che la comunità internazionale dei professionisti della salute mentale (L’American Psychiatric Association, L’American Psychological Association, ecc.) e l’Oms sono concordi nell’asserire che l’orientamento omosessuale è una variante dell’espressione erotico affettiva e non è l’espressione di un disturbo come indica la dottoressa Atzori.
In ultimo, per correttezza nei confronti dei pazienti, occorre spendere due parole sull’esito della “terapia ricostitutiva” e cioè quella terapia sostenuta dall’infettivologa Atzori, mirata a cambiare l’orientamento omosessuale.
Tutte le ricerche condotte dimostrano che il risultato di queste terapie è che il paziente può modificare il suo comportamento sessuale (diventare astinente, coinvolgersi in rapporti eterosessuali finanche sposarsi) ma non può modificare le sensazioni emotive, sentimentali, le fantasie, i desideri. Può considerarsi un cambiamento di successo? Inoltre i risultati delle ricerche hanno verificato che gli effetti psicologici di queste terapie sui pazienti sono: depressione, bassa autostima, difficoltà relazionali e disfunzioni sessuali (Hadelman, 2002). Una terapia dunque efficace nell’incidere pesantemente sull’equilibrio psicologico del soggetto.
Segnalo anche la risoluzione dell’APA (American Psychological Association, 2000) che invita gli psicologi e gli psicoterapeuti ad analizzare il contesto sociale in cui emerge la richiesta di cambiare orientamento sessuale, le pressioni esterne, la presenza o l’assenza di supporto sociale e l’interiorizzazione degli stereotipi e dei pregiudizi. (Per un ulteriore approfondimento: http://www.psychomedia.it/pm/lifecycle/gender).
In ultimo, ricordo che i pazienti hanno il diritto a un intervento chiaro, efficace, etico e che si basi su specifiche competenze professionali.
Dottoressa Margherita Graglia
Psicologa, consulente dell’Ausl di Reggio Emilia e del Ministero Pari Opportunità