Da "La Repubblica" del 26.08.04 di VITTORIO ZUCCONI
Cheney "tradisce" Bush "Gay liberi di sposarsi"
Il vice-presidente avrebbe scelto un approccio morbido per conquistare gli omosessuali moderati, infastiditi dall´estremismo di Bush
L´uscita del falco della Casa Bianca non stupisce troppo: da anni appoggia le scelte di Mary, sua figlia, che è lesbica. Ma molti si chiedono se sia il padre a parlare o il politico, in un´astuta divisione di compiti con il presidente. I gay sono una fetta importante dell´elettorato, su cui negli ultimi anni l´attenzione dei candidati si è concentrata con forza
DEVE essere stato difficile, per l´uomo, contraddire il politico che vive dentro lo stesso abito e la faccia, tesa e cupa anche più del solito, tradiva il conflitto. Ma è bello, anche se forse non del tutto vero, pensare che il padre abbia vinto il duello con il politicante e che sia stato l´affetto, e non l´opportunismo, il sentimento che ha spinto Dick Cheney.
Che sia stato un sentimento paterno a guidare il campione della destra pura e dura, il vicepresidente tutore di George W. Bush, a commuoversi e a dichiarare in pubblico il proprio «orgoglio» verso la figlia lesbica, Mary. E rinnegare così il proprio superiore e allievo, Bush, che vorrebbe proibire il matrimonio ai gay per assecondare il fanatismo degli elettori della destra di Dio.
La malizia e i trucchi delle campagne elettorali spingerebbero a pensare che Dick e George, quindi il tutore e il pupillo, abbiano fatto il solito gioco delle parti da "poliziotto buono" e "poliziotto cattivo" per imitare in due quello che John Kerry sa fare benissimo da solo, prendere due posizioni opposte sulla stessa questione e così far contenti – o scontenti – tutti. La lobby gay, che oggi non è più un monolito politico di sinistra, non è numericamente decisiva nelle elezioni ma è finanziariamente e culturalmente importante, e l´opposizione alla proposta di snaturare la costituzione per qualche vantaggio elettorale, aveva incollerito anche esponenti moderati e "pro Bush" come il commentatore Andrew Sullivan, arrivato a parlare di «colpo di Stato». Nella Washington ammorbata dalla faziosità di questa campagna presidenziale particolarmente tossica, il circuito del pettegolezzo indica nel cinico regista della propaganda, Karl Rove, il movente dell´uscita pubblica di Cheney, commosso dai sondaggi più che dal cuore di padre.
Ma in gioco c´è, questa volta, il rapporto tra padre e figlia, e Cheney, con la sua collezione di cinque infarti e il battito cardiaco regolato da un sofisticatissimo pacemaker per non andare fuori giri, comincia ad avere, a 63 anni, quella età nella quale i rimpianti contano più dei voti e si può credere che per una volta il politico e l´uomo si siano trovati sullo stesso ritmo. Il fatto che Mary Cheney, la figlia di 34 anni, fosse lesbica è noto da tempo, il suo outing non fa più scandalo, ed è comunque una gay dichiaratamente repubblicana, dunque almeno politicamente corretta secondo la nuova egemonia culturale.
Anche le perplessità famigliari sull´oltranzismo moralistico di «W» e sulla sua ingegneria costituzionale discriminatoria erano conosciute e sovente il «pillow talk», i sussurri sul cuscino tra mariti e mogli, pesano quanto i suggerimenti dei consiglieri politici. Lynne, la moglie di Cheney, aveva già detto in un´intervista alla Cnn di poche settimane or sono, che l´idea di snaturare la Costituzione, un documento costruito per dare diritti e non per toglierli, come proponeva Bush, non le piaceva e avrebbe preferito lasciare ai singoli 50 stati americani il compito di scriversi le proprie norme e leggi.
Ma le mogli, soprattutto nelle amministrazioni repubblicane che non tollerano i tipi alla Hillary Clinton, non governano e ben diverso è stato l´effetto sul pubblico delle stesse frasi quando a dirle è stato martedì quel Dick Cheney che tutti sanno essere il nocciolo duro ideologico nella polpa molle di questa Amministrazione. Ha contraddetto direttamente non soltanto Bush, il federalista divenuto centralista accanito per lisciare il pelo alla destra cristiana, ma addirittura ha sostenuto l´esatto opposto di quello che il suo partito, il repubblicano, in questi giorni sta freneticamente cercando di iscrivere nella piattaforma ideologia ufficiale per il Congresso, la Convention di New York la prossima settimana, appunto l´emendamento costituzionale anti-gay. E infatti dal ventre del moralismo integralista americano sono subito venute le voci di irritazione e di dissenso per questa sortita di un campione del conservatorismo come Cheney che si proclama «orgoglioso» di una figlia che tanti dei suoi elettori considererebbero come una depravata.
Se dunque tenerezza e cinismo, cuore di padre e cervello di politico, hanno coinciso per una volta nel leader della destra neoconservatrice e falchissima come Cheney, è giusto che il tanto destato "Darth Vader" (soprannome affibbiato dai pacifisti) abbia approfittato dell´occasione per compiere un gesto intelligentemente umano. Non ha certamente dato il proprio sigillo al matrimonio fra gay, che soltanto il sindaco di San Francisco e la corte suprema del Massachussets avevano autorizzato, prima di essere cassati entrambi, deludendo le 4 mila coppie californiane che avevano celebrato le nozze. Non si è arreso, apparentemente, alla lobby gay che aveva prodotto un sito Internet, www. dearmary. com, per mobilitare le lesbiche e scatenare una pioggia di lettere e di mail elettroniche su Mary Cheney per chiederle di prendere posizione contro il boss di suo padre.
Ha usato l´uscita di sicurezza più facile in questi casi, scaricando sugli Stati, e non sull´autorità federale della Costituzione e del Congresso, la responsabilità di decidere, anche qui come vuol fare John Kerry, pur se questo produrrebbe sicuramente una grottesca coperta patchwork di legislazioni diverse e in contraddizione fra di loro. E se i 30 milioni di importantissimi elettori delle «armate cristiane» fondamentaliste, senza le quali George Bush e il suo tutore tornerebbero a casa per direttissima il 2 novembre prossimo, sono oggi indignati per la concessione fatta da Cheney a quello che gli elettori timorati di Dio ancora chiamano «sodomia», ne usciranno turbati, pazienza.
È impensabile che i milioni di crociati di Ralph Reed, l´organizzatore della lobby biblica, e degli altri fanatici della Bibbia cambino campo e votino per il liberal (si traduce "comunista" in italiano) Kerry. Nella peggiore delle ipotesi, si asterranno o si chiuderanno il naso votando comune «W» e pensando a tutte le credenziali ultra-conservatrici che Dick Cheney ha saputo conquistarsi in decenni di militanza inflessibile con la destra, dagli anni di Nixon fino alla sua vigorosa e cruciale sponsorizzazione della guerra. E se proprio l´elettorato dovesse bocciarlo, potrebbe almeno rincasare guardando in faccia Mary e abbracciarla, orgoglioso di non avere, per una volta, venduto la propria dignità per un voto.
Da "Il Foglio" del 26.08.04 di Daniele Scalise
Un vicepresidente e tre olimpionici esaltano l’orgoglio omosessuale
Avere a che fare con la mutazione è molto più complicato ma anche più utile che assistere passivamente o legittimamente protestare contro lo status quo. Segnali a volte vaghi e altre volte potenti indicano che la percezione dell’omosessualità sta subendo cambiamenti epocali nella sostanza, cambiamenti che tutti noi registriamo con difficoltà perché muovendosi sul piano della quotidianità essi ci appaiono ovvi e quasi sempre inutili a dirsi.
Tre esempi: dagli Stati Uniti Dick Cheney, in una conferenza stampa piuttosto aggressiva, dichiara senza il benché minimo imbarazzo, un paio di cose del tipo: “la gente dovrebbe poter entrare in qualsiasi tipo di relazione che desideri” e poi aggiunge: “Lynne ed io abbiamo una figlia gay e quindi la questione (dei matrimoni gay) ci è estremamente familiare”. Stiamo parlando del vicepresidente degli Stati Uniti d’America, un repubblicano commeil- faut e non di uno spregiudicato manager dello show-biz, non di un progressivo padre che di sera si fa le canne perché conciliano il sonno.
Amelie Mauresmo
Alle Olimpiadi di Atene almeno tre atleti si sono dichiarati apertamente — ma senza clamore — gay: due americani, Robert Dover e Guenter Seidel, e la francese Amélie Mauresmo, nemmeno a dirlo tennista. I primi due si portano a casa due medaglie di bronzo, la terza una d’argento. Un tempo (non molto tempo fa) se uno collegava l’omosessualità allo sport passava per diffamatore e sporcaccione, oggi l’autodefinizione entra nel panorama visivo e uditivo senza far torcere le budella né agli organizzatori né agli allentori né ai colleghi né tanto meno al pubblico. Quel che un tempo (non molto tempo fa) era vissuto come un insulto e in quanto tale perseguito dalla legge, oggi si va trasformando in dato anagrafico e, se sei famoso, in aneddoto della tua storia biografica, spesso declinato dagli stessi soggetti che lo vivono e che con generosità lo raccontano a beneficio di quanti si costringono ancora all’asfissia del silenzio.