Ci sono due categorie la cui sensibilità viene generalmente sopravvalutata: quella degli scrittori e quella degli omosessuali.
Ovvia l’illusione ottica che generano i primi, la cui capacità di esprimerla, questa benedetta sensibilità, è naturalmente confusa con il dono di possederla, senza pensare invece alle incontinenze narcisistiche che proprio quella capacità spesso genera.
Meno ovvia l’illusione ottica che generano i secondi.
«Loro sono così sensibili», chiosa la maggior parte delle persone quando per un motivo o per un altro si ritrova a parlare di gay.
E’ indiscusso il guadagno di maturità che si ottiene lungo le strade della ricerca interiore quanto questa sostituisce un’accettazione di qualcosa generalmente dato per preconfezionato, come in questo caso la propria identità sessuale.
Ma il luogo comune è più istintivo che logico: la Grande sensibilità, in questo caso, mi sembra uno dei tanti dazi con cui un certo senso di colpa, collettivo o individuale che sia, paga il pedaggio del proprio imbarazzo di fronte a qualcosa avvertito irrimediabilmente come diverso.
Normalizzare anziché anestetizzare: proprio questo il motto dell’XI congresso nazionale dell’Arcigay che lo scorso fine settimana si è svolto a Bologna al palazzo Re Enzo per celebrare il ventesimo compleanno dell’organizzazione.
Benicio Del Toro
In principio erano i Compagnacci, un gruppo di ragazzi che nel Quattrocento si riuniva a Firenze per contrastare i seguaci del Savonarola e dei suoi appelli feroci per l’emanazione di leggi sempre più dure contro i sodomiti: oggi l’Arcigay, tramutando in forza propulsiva perfino lo smarrimento di fronte alla rapida diffusione dell’Aids negli anni Ottanta, è il movimento omosessuale con il maggior numero di soci in tutta Europa (siamo più di centocinquantamila, mi spiega un sosia made in Sicily di Benicio del Toro, seduto vicino a me).
I punti del congresso bolognese, dalle politiche per i giovani a quelle per la terza età, sono ruotati principalmente attorno a quello nucleare del riconoscimento e della tutela delle coppie omosessuali, già ottenuti in dodici paesi della Unione europea.
In Italia la proposta è targata Pacs – ossia patto civile di solidarietà – ed è stata fatta in Parlamento dal presidente onorario di Arcigay Franco Grillini, o come lo chiaman tutti l’omorevole, continua a spiegarmi Benicio (indicandomi un suo ex che non l’ha salutato e secondo lui l’ha visto benissimo, «anche se in effetti è miope»).
Delegati al Congresso nazionale Arcigay
Si tratta di estendere alla coppia omosessuale sposata la parità di diritti che un matrimonio eterosessuale garantisce: ognuno degli interventi – più di una cinquantina – ha declinato la stessa esigenza (eccerto, certo che c’era Alessandro Cecchi Paone. E pare aver convinto anche chi lo guardava con quel sospetto figlio di debiti ancestrali che l’Arci mantiene nei confronti del fu Piccì. «Ribadisco la mia volontà di lavorare con l’associazione» ha esordito «contribuendo anche con la mia immagine e sottolineando il valore della trasversalità politica del movimento gay»).
Dal canto suo la politica, rappresentata da Belillo, Pecoraro Scanio, Capezzone (e Violante, dicono, ma io a quel punto non c’ero – o se c’ero dormivo) fino a Fassino, si è detta disposta a inserire il Pacs nel proprio dibattito e nel futuro programma dell’Unione europea.
Benicio, accanto a me, ogni tanto applaude ma più spesso scuote la testa: la comunità è forte e noi ce la mettiamo tutta ma tutta (secondo te a Palermo per creare nuove forme di socialità è meglio cominciare con un cineforum o un torneo di calcetto?), ma niente cambierà davvero finché l’Italia non (si) educherà attraverso una serie mirata di legislazioni, si sfoga. Normalizzare anziché anestetizzare, sospira.
Annuisco convinta e improvvisamente mentre guardo quegli occhi neri e grandi, bellissimi, mi ritrovo a pensare qualcosa del tipo sempre i migliori se ne vanno per primi, perché Benicio perché l’hai fatto perché.
Mi vergogno di me stessa, ma si sa: la categoria delle single non è per niente sensibile.