Un intervento della Chiesa contro il Pacs (Patto civile di solidarietà) era sicuramente prevedibile e atteso. Soprattutto dopo l’ascesa al soglio pontificio di Joseph Ratzinger, storico avversario del riconoscimento giuridico alle coppie omosessuali.
Così, dopo l’intervento a gamba tesa della Cei nel dibattito sul referendum sulla fecondazione assistita, ora assistiamo ai puntuali commenti dell’Osservatore Romano sulla società italiana.
Per quanto riguarda il Pacs, l’attacco della Chiesa non agita paure zapateriste, ma si concentra su un fatto di merito sociale della questione: la lacerazione della famiglia. Il non morbido attacco dell’Osservatore Romano a Prodi segna certamente un punto di svolta rispetto al consueto atteggiamento moderato assunto finora dalla testata vaticana; anche perché le posizioni di Romano Prodi possono essere certamente considerate alla stregua di quelle assunte dall’ex premier spagnolo Aznar, lontanissime peraltro dalle posizioni di Zapatero.
Il Patto civile di solidarietà è sicuramente uno dei temi che oggi vengono posti all’evidenza dal dibattito sulla modernità in corso negli ultimi anni, quando si parla di tutela giuridica delle coppie di fatto e nello specifico delle coppie omosessuali. La proposta del Pacs nasce dall’esigenza di colmare un vuoto legislativo che di fatto consente oggi il verificarsi di continue e reiterate discriminazioni nei confronti di quelle coppie eterosessuali, che per varie ragioni non scelgono il matrimonio, e di tutte le coppie omosessuali che addirittura non possono accedere a nessuna forma di tutela della loro unione. Dunque il Pacs nasce come proposta generalista, volta a tutelare sia le coppie omosessuali che quelle eterosessuali.
Il vicepremier Gianfranco Fini ha messo l’accento sull’importanza di «rimuovere eventuali discriminazioni che negano i diritti individuali e personali dei cittadini che danno vita alle unioni di fatto». Sembra essere uno dei pochissimi esponenti del centrodestra ad aver compreso il carattere tutelativo e di garanzia del Pacs.
Facciamo alcuni esempi concreti. A chi ha convissuto con una persona, magari per trent’anni, può essere addirittura negato il diritto di assistere il proprio partner morente in ospedale, con le famiglie di origine che hanno la facoltà di impedire al partner l’accesso al luogo di cura, escludendolo da ogni decisione riguardante il partner malato e incapace di agire. Attraverso l’istituto della riserva a favore dei legittimari può essere vietato a chi fa testamento di lasciare in eredità il proprio patrimonio alla persona con cui ha condiviso l’esistenza.
Tali trattamenti si configurano chiaramente come punitivi nei confronti di quei cittadini che non ritengono il matrimonio adatto alla loro unione o non ne condividono alcuni aspetti o, in modo ancor più grave, nei confronti di chi non ha potuto nemmeno scegliere se sposarsi o meno, semplicemente perché la legislazione italiana non consente alle coppie omosessuali di contrarre matrimonio.
Arriviamo ora al continuo e abusato riferimento all’articolo 29 della Costituzione, utilizzato come un «cordone giuridico» dinanzi alla possibilità del riconoscimento del matrimonio tra persone dello stesso sesso o addirittura per impedire un semplice riconoscimento delle coppie di fatto. Questa storia secondo cui l’articolo 29 primo comma della Costituzione impedirebbe di riconoscere parità di diritti alle famiglie di fatto, sia eterosessuali che omosessuali, è in effetti da qualche anno un leitmotiv molto diffuso, che riesce a guadagnare peso politico grazie all’accondiscendenza dell’intera classe politica italiana: anche di molti «laici», scarsamente interessati a questi argomenti e quindi pronti ad assecondare il punto di vista clericale, ritenuto molto popolare fra gli elettori.
Ma l’articolo 29 della Costituzione non dice affatto che la Repubblica riconosce come famiglia solo quella definita come «società naturale fondata sul matrimonio». L’articolo 29 dice: «La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio». I costituenti vollero con ciò sancire che lo Stato non avrebbe potuto fare a meno di garantire «i diritti» delle famiglie fondate sul matrimonio, alle quali veniva così assicurata una relativa sfera di autonomia rispetto al potere regolativo dello Stato.
Lo stesso Aldo Moro, in sede di Assemblea costituente, dichiarò che quella dell’articolo 29 «non è una definizione, è una determinazione di limiti». Dunque, l’articolo 29 è nato per difendere l’autonomia della famiglia fondata sul matrimonio come «formazione sociale intermedia», che non avrebbe potuto essere invasa da interventi autoritari. Un riconoscimento come il Pacs non riguarderebbe perciò minimamente la materia regolata dall’articolo 29, e non avrebbe alcuna incidenza su quel che l’articolo 29 dispone, dato che non comprometterebbe in alcun modo e in alcuna misura i diritti o la sfera di autonomia delle famiglie tradizionali. Allora, di quale lacerazione della famiglia si sta parlando?
Alessandro Zan
segreteria nazionale Arcigay
responsabile Pacs
Dalla prima pagina di "Mattino di Padova", "Tribuna di Treviso" e "Nuova di Venezia e Mestre"