Luca e Francesco, doppie nozze gay

  

Luca e Francesco sono gli unici gay al mondo ad essersi sposati due volte. Il loro primo matrimonio è stato religioso, celebrato in totale segretezza, il 4 febbraio del 1978, a Pinerolo (nel Torinese), da un sacerdote, don Franco Barbero. Il secondo – in piena ufficialità – che li ha resi legalmente "coniugi" (formula che sostituisce un improbabile marito e moglie), si è svolto in Spagna grazie alla recente legge che autorizza i matrimoni gay.

Luca e Francesco, quando sono stati dichiarati "sposi" da don Franco, avevano rispettivamente 27 e 31 anni, il primo era commesso in un negozio di alimentari, il secondo professore di lettere al liceo. Un paio di anni fa, sapendo che il governo laico di Zapatero, in una cattolicissima Spagna (dopo Belgio e Olanda), di lì a poco avrebbe reso legali i matrimoni omosessuali, si sono trasferiti nei pressi di Malaga, sulla Costa del Sol, per diventare cittadini spagnoli.

E così, a maggio di ques’anno, 10 mesi dopo ‘approvazione della legge Zapatero, nel municipio di una cittadina del’Andalusia si sono giurati fedeltà per la seconda volta. Oggi (uno 59enne, ‘altro 55enne, entrambi in pensione), sono forse i primi omosessuali italiani a essere stati dichiarati "coniugi" in Spagna. A raccontare la loro lunga storia ‘amore durata 28 anni e "consacrata" da due matrimoni, uno cattolico e ‘altro laico, il primo clandestino, il secondo alla luce del sole, è il sacerdote pinerolese.

Don Franco, tre anni fa, per la sua teologia che considera "non trasgressione, ma oltrepassamento" della dottrina cattolica (è per una rilettura dei dogmi alla luce del vangelo e dei priblemi della società contemporanea), fu sospeso a divinis da Joseph Ratzinger, allora prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, oggi papa.

Nonostante quel provvedimento che suscitò molto clamore negli ambienti del cattolicesimo progressista italiano, il prete "ribelle" ("ma non gay", precisa), fondatore della comunità di base "Viottoli", continua a celebrare messa come se nulla gli fosse successo rifacendosi al dogma cattolico (semel sacerdos, semper sacerdos), secondo il quale chi un giorno è stato ordinato sacerdote, lo rimane per sempre.

"Ricordo quel 4 febbraio di 28 anni fa come fosse ieri – racconta don Franco – la cerimonia, segreta, è stata semplice, colorata da qualche mazzo di fiori, ma senza festa, né canti, né musica. Solo tanta gioia intorno al tavolo nella sede della comunità. Eravamo in 5, Luca e Francesco, i due testimoni (uno dei due era un omosessuale che aveva sofferto le pene del’inferno per essere stato relegato fra gli’impur’), e io, in camice e stola. Fu una celebrazione normale, con la comunione sotto le due specie, e il solito calice".

Non fu certo facile, per un don Barbero allora trentanovenne (oggi ne ha 68), due anni prima della Fondazione Sandro Penna, il primo movimento omosessuale italiano voluto da Angelo Pezzana, compiere un gesto così azzardato e così contrario alla dottrina della Chiesa. "Quel matrimonio – ricorda il sacerdote – rappresentava per gli’spos’ e per me una scelta convinta e felice che vivemmo come fosse una cosa naturale. Nel febbraio del 1978, però, era un fatto che non potevo comunicare a nessuno. Segretissimo".

I tempi, allora (a Torino ‘inziavano i processi alle Bierre di Curcio, il 16 marzo ci sarebbe stato il sequestro Moro), non erano ancora maturi per parlare di "matrimoni omosessuali". "Per questo – ha aggiunto il sacerdote – era un episodio da chiudere. Noi della comunità di base eravamo impegnati nella lotta contro il concordato e la Dc in quella contro il terrorismo. Il vaticano (dopo la dichiarazione’Persona Human’ di Paolo VI), era ostile agli omosessuali e a nulla era valso lo’strapp’ del’Associazione dei teologi americani che pubblicò’La sessualità uman’. Anche avessi voluto, non avevo interlocutori".

Don Franco Barbero

Don Franco Barbero

Don Franco non si fermò con Luca e Francesco. "Dopo il primo episodio – racconta – continuai a essere sollecitato a celebrare segretamente matrimoni. Fra ’83 e ’84 ne feci in tutto una sessantina in regime di totale clandestinità non solo fra maschi, ma anche fra donne. Qualcuno aveva portato il papà, pochissimi la mamma".

Il prete pinerolese ha sempre avuto la consapevolezza che difronte alla legge della Chiesa quei matrimoni non fossero riconosciuti. "Ero cosciente – ha confessato – di compiere un rito gravemente peccaminoso. E le coppie gay lo erano di fare un atto non valido". Perché, allora, li celebravano? Ecco la "teologia" sui matrimoni gay del prete "ribelle". "Per noi, la fede è superiore alla legge ecclesiastica che va presa per quello che vale visto che non è mai uguale nel tempo. Noi, con tranquillità, diciamo: una cosa è la dottrina della Chiesa, u’altra il dono di Dio della fede che libera dal’obbedienza – e in questo caso schiavitù – della norma. Ebbene, quando due uomini o due donne
hanno capito che quel loro amore è un dono di Dio, davanti a lui ritengono di essersi sposati. È questo il significato che i gay danno alla cerimonia nuziale che non ha valore di fronte alla legge civile, ma costituisce un cammino di fede".


  •