Milano, 11 maggio 2007
Sergio Lo Giudice, presidente onorario Arcigay
Care amiche e cari amici,
questo è il dodicesimo congresso nella storia più che ventennale della nostra associazione.
Ci presentiamo a questo appuntamento forti del ruolo centrale che Arcigay ha assunto, insieme all’intero movimento lgbt, nel dibattito politico nazionale.
Siamo orgogliosi di avere aiutato a crescere la visibilità e la coscienza di sé di tanti gay e tante lesbiche. Di essere punto di riferimento, in più di quaranta province italiane, di un numero sempre più ampio di persone omosessuali. Di avere posto la questione del benessere e della felicità di lesbiche, gay, bisessuali e transgender e delle loro famiglie come tema ineludibile del confronto politico.
Siamo però anche pieni di rabbia e delusione per le promesse tradite, per gli impegni mancati, per l’indifferenza con cui da troppe parti si consente il permanere di discriminazioni normative e sociali che non sono degne di un paese europeo.
Siamo preoccupati per una nuova onda omofobica che sembra travolgere il principio di laicità e lo stesso buon senso. Per l’arretratezza culturale e politica che avvertiamo sui temi dei diritti civili, dell’autonomia delle persone, delle libertà individuali.
Da questo congresso, dalla discussione che affronteremo in questi tre giorni, Arcigay uscirà pronta a rispondere con modalità nuove alle nuove sfide. Perché una fase della nostra azione si chiude ed un’altra se ne apre. Perché in questi anni è cambiato il mondo intorno a noi ed è cambiata la percezione che abbiamo di noi stessi e del nostro ruolo.
Siamo di fronte ad un processo epocale di rivoluzione dei costumi che in gran parte d’Europa, ma non solo, dall’Olanda al Canada, dalla Spagna al Sudafrica, dalla Gran Bretagna al Brasile sta trascinando fuori dall’invisibilità gay e lesbiche e li sta conducendo dentro i confini del diritto e dell’uguaglianza.
L’Italia, che è dentro questo processo sul piano sociale e su quello culturale, è rimasta ferma sul piano delle garanzie giuridiche. Il principio di laicità è messo in discussione dalla sottomissione di una parte ampia della classe politica a principi diversi da quelli garantiti dalla nostra Costituzione e dal suo silenzio quando non della sua complicità di fronte all’aggressione omofoba senza precedenti proveniente dalle gerarchie vaticane.
Per noi, si impone oggi un cambio di passo.
Quando ho assunto il ruolo di presidente di Arcigay, nel 1998, il movimento lgbt italiano usciva da una delle fasi più critiche della sua storia.
Gli anni precedenti avevano creato forti aspettative e acceso per la prima volta grandi speranze.
La Risoluzione del Parlamento europeo dell’8 febbraio 1994 sulla “Parificazione dei diritti di gay e lesbiche nella Comunità Europea” aveva indicato una strada da percorrere. Il successo dei due Gay Pride del 1994 e 1995, a Roma e Bologna, avevano ridato forza alla nostra passione, mostrando che scendere in piazza insieme a migliaia e migliaia di gay, lesbiche e trans era possibile. L’anno successivo era stato segnato dalla vittoria elettorale del centrosinistra. Per la prima volta le forze politiche e le donne e gli uomini che avevamo individuato come gli interlocutori più attenti, o meno distratti, andavano al governo del paese.
La possibilità di giocare un ruolo più forte, di ottenere risultati concreti, di mobilitare le piazze, dava linfa alle diverse soggettività presenti nel movimento che avvertivano l’esistenza di nuovi spazi e nuove strade.
Per il nostro movimento fu una scossa tellurica. Le lesbiche dell’associazione decisero di dare vita ad ArciLesbica, facendo salpare per la prima volta nella storia del nostro paese l’esperienza di una associazione lesbica nazionale L’area più antagonista di Arcigay scelse di abbandonare la casa madre e di sperimentare nuove forme di autonomia. Le realtà storicamente esterne ad Arcigay provarono a dare vita ad una nuova rete nazionale di circoli glbt.
Una fase dinamica, ricca di opportunità, ma segnata da un clima di conflittualità e, per parte nostra, dalla consapevolezza della necessità di cambiare il ruolo svolto sino ad allora da Arcigay: un coordinamento leggero fra circoli locali che aveva esercitato soprattutto l’importante funzione di portavoce del movimento nei confronti dei media e degli interlocutori politici e istituzionali.
Il congresso di Roma del 1998 lanciò alcune parole d’ordine per rilanciare l’azione dell’associazione. La costruzione della comunità a partire dalla centralità dei circoli territoriali; la creazione di un gruppo dirigente allargato e strutturato che valorizzasse le competenze sorte sul territorio; la costruzione di processi decisionali sempre più partecipati e condivisi; la pianificazione di servizi e di progetti socio sanitari e culturali, a livello nazionale ed europeo, e la loro messa in rete. Non ultimo, il rilancio della nostra capacità di mobilitazione. “ Una comunità in movimento — ci dicemmo in quel congresso-: movimento che sia sociale ancor prima che politico, movimento di piazza quando occorra, movimento graduale ma inarrestabile verso una società più libera”.
Ci siamo rimboccate le maniche e siamo ripartiti insieme, città per città, mettendo in pratica quanto ci eravamo ripromessi di fare.
Su tutti quegli obiettivi abbiamo fatto importanti passi in avanti, che hanno ampliato il benessere e la visibilità delle persone lgbt e consolidato la nostra presenza sul territorio. Tutti tranne uno: l’approvazione di leggi che garantissero a livello normativo i diritti delle persone lgbt e delle loro famiglie.
La nostra storica proposta di una legge sulle Unioni civili, poi sui Pacs, ha rappresentato una risposta innovativa ed avanzata all’esistenza di una pluralità di modelli familiari ed è riuscita a diventare tema centrale della politica italiana.
Avevamo costruito un percorso praticabile per giungere ad una legge che avvicinasse l’Italia agli altri Paesi europei, anche se già la Spagna, dopo l’Olanda e il Belgio, si stava apprestando a stupire l’Europa e il mondo legalizzando, primo paese a maggioranza cattolica, i matrimoni omosessuali.
L’avevamo fatto noi perché nessun altro lo stava facendo, in un quadro politico come quello italiano, inquinato dalle ingerenze confessionali, ingessato dall’insufficienza elettorale delle sinistre, avvelenato dalla presenza di forze fondamentaliste, neofasciste, populiste e xenofobe.
Ma nonostante i precedenti impegni, assunti anche personalmente da Romano Prodi prima delle ultime elezioni politiche, nel programma dell’Unione la parte relativa alle coppie di fatto è stata ridotta ad una dichiarazione ambigua.
Quello che abbiamo fatto è stato di agire di conseguenza, non schierando l’associazione a fianco dell’Unione alle elezioni politiche dello scorso anno e rilanciando un’iniziativa fondata su tre perni.
Il primo è stato l’avvio, insieme all’intero movimento lgbt, di una campagna di mobilitazione unitaria nel paese, che ha avuto i suoi momenti clou nel Torino Pride 2006 e nella bella manifestazione d Piazza Farnese del 10 marzo scorso e che è alla base del lavoro comune di costruzione del grande Pride unitario che si terrà a Roma il 16 giugno prossimo.
Questa volta, di fronte alle difficoltà imposte dall’esterno il movimento lgbt non ha fatto l’errore del ’96, quello di una frantumazione conflittuale, ma ha mostrato di essere più maturo e più consapevole, puntando molte delle proprie energie sulla carta dell’unità.
Questa unità, e vengo al secondo punto, è forte perché si è creata intorno ad una forte convergenza su un contenuto programmatico condiviso come il vero collante della nostra lotta comune: “uguale dignità, uguali diritti”.
Contenuto programmatico, ho detto, perché quel concetto di uguaglianza è sempre stato per noi il valore ispiratore e l’orizzonte ideale.
Ma in più occasioni abbiamo deciso di declinarlo in forme diverse per renderlo politicamente spendibile; di mettere da parte le sue implicazioni più spinose per interagire su un piano di realismo con i nostri interlocutori; di insistere sulle proposte su cui sapevamo di avere già costruito un consenso nella società, per tagliare l’onda nel modo più efficace e lanciare le nostre proposte più in avanti possibile verso la loro realizzazione.
É stato giusto farlo? È servito a produrre passi in avanti verso l’obiettivo di liberazione dal dominio della disuguaglianza che stiamo portando avanti? In quelle condizioni, in quella fase storica, io credo di sì, perché ci ha permesso di seminare, di allargare il consenso sui nostri temi e collocarli al centro del dibattuto culturale e politico
Ma oggi il punto fondamentale riguarda il presente e le nostre scelte per il futuro. E oggi lo scenario è cambiato e chiede risposte nuove.
La società italiana ha vissuto un processo di maturazione e alla domanda sui diritti delle persone omosessuali la maggior parte delle risposte sono positive. La carta geografica dell’Europa in tema di diritti cambia mese dopo mese, lasciando l’Italia in compagnia cromatica di un pugno di paesi che, non a caso, sono gli stessi ad occupare gli ultimi posti nelle classifiche della crescita economica, comprovando la lezione di Richard Florida secondo cui solo dove c’è tolleranza delle differenze, c’è anche promozione dei talenti e sviluppo della tecnologia.
I partiti, dal canto loro, oggi conoscono bene le questioni che poniamo. Per loro non si tratta ormai di imparare a confrontarsi con un fenomeno poco conosciuto, ma, più semplicemente, di fare delle scelte assumendosi delle responsabilità.
Anche le energie messe in campo sul terreno diretto della politica dalla nostra comunità, a partire dalla stessa Arcigay, sono cresciute e si sono articolate: parlamentari, amministratori locali, dirigenti politici, operatori delle istituzioni, coordinamenti lgbt di partito vanno ad occupare spazi che fino a qualche anno fa sarebbero rimasti scoperti se non fossero stati presidiati da noi stessi.
In questo scenario, e qui sta il terzo punto di forza di un rilancio della nostra azione, Arcigay può assumere un ruolo nuovo: marcare di più e meglio la propria piena autonomia dai partiti politici; lasciare ad altri il compito di costruire le mediazioni possibili; agire, verso la politica e nella società, lanciando la nostra nuova parola d’ordine: quella dell’uguaglianza.
Unità del movimento, quindi, per l’uguaglianza dei diritti attraverso l’autonomia della nostra azione.
Se questo significherà una battaglia per l’accesso paritario al matrimonio civile e per rompere il tabù della genitorialità omosessuale, con questo la politica italiana dovrà confrontarsi e su questo noi valuteremo chi fa parte della soluzione e chi del problema.
Su un punto, in particolare, non accetteremo compromessi, un punto che rifiutiamo possa essere consegnato alla trattativa politica o liquidato come un tema sensibile. Un punto che è un elemento così essenziale del processo che si apre da avergli dedicato il titolo del nostro congresso: noi siamo famiglie.
Noi rispettiamo come incoercibili le convinzioni personali di chi è convinto della superiorità morale della famiglia fondata sul matrimonio, chi considera quel legame sacro e indissolubile, chi definisce la propria famiglia sulla base della sua interpretazione della Bibbia, Del Talmud o del Corano.
A tutti loro però diciamo: non vogliamo noi proporvi i nostri modelli familiari, ma non accetteremo che voi ci imponiate il vostro. E lo diciamo in modo particolare a quei leader religiosi che pretendono che lo Stato si faccia braccio operativo dell’imposizione dei propri precetti ad una società a cui non riescono più a parlare.
Noi siamo famiglie. E non si dica che è solo una questione terminologica: abbiamo dimostrato di non avere a cuore i nominalismi. Il fatto è che è in corso un’operazione culturale e politica che noi consideriamo regressiva che mira a tamponare con alcuni provvedimenti limitati e parziali il processo inarrestabile di richiesta di pari diritti da parte delle coppie lesbiche e gay. In cambio, ci si chiede di accettare di essere considerati singoli individui, affiancati, giustapposti, contestuali, ma pur sempre distinti e non legati da relazioni riconosciute. Non è così.
Noi siamo famiglie, e come tali vogliamo essere considerate.
Ci sta molto a cuore la grammatica dei nostri diritti individuali, così come in generale il riconoscimento dei diritti e delle esigenze dei single. Ma ci sta altrettanto a cuore la sintassi delle nostre relazioni. Perchè è anche nelle relazioni che si svolge la personalità degli individui, come dice la nostra Costituzione, perché è soprattutto nelle relazioni che si svolge la ricchezza di un tessuto sociale in cui noi vogliamo stare dentro come i fili di una trama e non come scampoli di risulta.
Per questo chiediamo di declinare al plurale la parola famiglia. Perchè al singolare ha il sapore di una costruzione ideologica imposta, sintomo di quella che Maurizio Ferrera ha definito la sindrome del «familismo bloccato», per cui l’unicità di un modello tradizionale di famiglia ostacola il dinamismo dell’organizzazione sociale e ne impedisce l’adattamento alle nuove condizioni sociali ed economiche. Al plurale, al contrario, quella parola sprigiona l’energia di un arcobaleno di forme d’amore e di relazione differenti fra loro e per questo arricchenti per tutti.
L’operazione del cosiddetto Family day, costruito a tavolino dai gerarchi vaticani, rappresenta a mio giudizio soprattutto un grande inganno, soprattutto per quelle centinaia di migliaia di persone che, in buona fede, convinti dal loro parroco o dal loro capo scout, andranno a Roma avendo a cuore il bene delle famiglie italiane e sabato sera saranno gettati sul tavolo della trattativa politica per cercare di togliere diritti concreti ad altre persone e ad altre famiglie.
Su questo vogliamo confrontarci non in termini ideologici, ma guardando alla realtà concreta delle persone e dei loro bisogni.
Su questo terreno vogliamo parlare di genitorialità omosessuale, a partire dai diritti negati di quei tanti bambini e bambine cresciuti con due mamme o con due papà ma senza che lo stato riconosca alcun legame con il genitore non biologico, privandoli così della garanzia di una continuità affettiva col genitore di fatto.
Su questo terreno potremo parlare serenamente di adozioni, perché il diritto dei bambini ad avere la migliore famiglia possibile non deve essere filtrato dal pregiudizio omofobico degli adulti in spregio alla letteratura scientifica e alle esperienze positive di tanti paesi come Svezia, Olanda, Gran Bretagna, Danimarca, Spagna, Germania, Stati Uniti, Belgio.
Noi declineremo in ogni sua articolazione concreta quei principi di uguaglianza di gay, lesbiche e trans a cui l’Europa non si stanca di richiamarci, dalla risoluzione del ’94 a quella del marzo 2000 che ha chiesto di garantire «alle coppie dello stesso sesso parità di diritti rispetto alle coppie ed alle famiglie tradizionali».
Parità di diritti dice quella risoluzione, approvata, come tutte le altre con un voto anche più ampio delle sinistre e dei liberali, votata dai rappresentanti di quegli stessi partiti che in Italia invece parlano un’altra lingua.
Piena uguaglianza di fronte alla legge, per stare dentro il processo di costruzione di un’Europa dei diritti. Il centrodestra, lo sappiamo, si oppone strenuamente a questi obiettivi, tranne alcuni esponenti laici e liberali a cui a cui noi guardiamo con grande attenzione e da cui ci aspettiamo segnali di autonomia.
Ma anche la posizione dell’Unione su questo non è chiara. Se il centrosinistra in Italia non ha i numeri per garantire oggi il conseguimento di quell’obiettivo, lo dica. Ce ne faremo una ragione, lavoreremo assieme per realizzarlo. Ma non possiamo più tollerare che la sinistra italiana metta in discussione essa stessa sul piano teorico quel principio di uguaglianza e che usi il linguaggio delle destre europee, ripetendo ossessivamente che la famiglia è una sola, che i nostri diritti devono essere recintati, che si condivide un manifesto discriminatorio come quello del family day.
La maggioranza che governa il paese oggi non parla il linguaggio di Segoléne Royal, che aveva promesso matrimonio ed adozioni. Ma neanche quello del centrista Bayreau, che è favorevole alla legalizzazione delle coppie gay e lesbiche, adozione compresa, non quello di Sarkozy, che ha dichiarato che i Pacs non sono più sufficienti e ha inserito nel programma che lo ha portato all’Eliseo un nuovo istituto che vada oltre i Pacs, un contratto civile firmato in municipio, sul modello delle Unioni civili inglesi, che garantirà alle coppie omosessuali ' eguaglianza nelle materie previdenziali, successorie e fiscali.
Allora, quale prospettiva ci offre la coalizione di centrosinistra in Italia? Quale visione del futuro? Quale condivisione di valori? Quale possibilità di appartenenza? A questa domanda non ci sono ancora risposte concrete ed è per questo che Arcigay oggi non può che dire al sistema dei partiti: non saremo più al vostro fianco se non come una spina che vi ricordi sempre che la mediazione sugli obiettivi da realizzare non può essere fondata sulla rinuncia al principio di uguaglianza di tutte e tutti di fronte alla legge.
Per questo non smetteremo di essere fastidiosamente scomodi nel chiedere una legge contro ogni discriminazione, il permesso di soggiorno per i nostri partner stranieri spesso perseguitati nei loro paesi d’origine, uno status democratico per gay e lesbiche in divisa, una nuova stagione di interventi per la lotta all’Aids e per la salute di gay, lesbiche e trans, la revisione della legge sul cambio di sesso per consentire il cambio anagrafico di nome e di genere anche senza interventi chirurgici.
E chiediamo, alla politica e all’informazione, che abbia termine la compressione della nostra voce sui media: non ne possiamo più di sentire giorno e notte in televisione il teocon o l’ateo devoto di turno diffamare le nostre esistenze e la nostra dignità senza contraddittorio: chiediamo che valga anche per noi la par condicio nell’informazione.
Per fare questo, l’autonomia dell’associazione, bene prezioso che tutti e tutte noi abbiamo preservato in questi anni, va declinata in forme e pratiche nuove. Autonoma Arcigay lo è sempre stata. Il criterio della nostra azione è sempre stato il perseguimento della nostra mission, ricercando via via le strategie più efficaci per realizzare questi obiettivi.
Ma si tratta di declinare in forme diverse il nostro rapporto con le forze politiche e con le istituzioni. Con i partiti ci siamo sempre relazionati a partire dalla nostra specificità di associazione. Ma, per rompere l’indifferenza nei nostri confronti, abbiamo noi stessi cercato di riempire degli spazi vuoti, agendo anche dentro i partiti, pensando noi stessi a costruire percorsi possibili e proposte realizzabili, a gettare dei semi laddove trovavamo terreni incolti.
Oggi quella fase è passata e Arcigay discuterà in questi tre giorni su come reinterpretare l ruolo che gli è più proprio. Altri di noi svolgeranno altre funzioni, nei partiti e nelle istituzioni, e noi non li lasceremo soli, perchè quello è un lavoro faticoso e necessario. Perché quella che viene da alcuni definita sprezzantemente la “lobby gay” è un lavoro faticoso e spesso nascosto di donne e uomini che hanno deciso di ribaltare un destino di vergogna in un impegno di vita animato dalla passione delle idee e dall’orgoglio della propria identità.
La fase di discussione che ci ha portato a questo congresso è stata ricca ed animata. Per niente scontata, ma arricchita di contributi di idee e di proposte che si sono confrontate con passione ma con rispetto reciproco, facendo di questo nostro dodicesimo congresso forse il più ricco e il più partecipato della nostra storia.
Per me è anche l’ultimo da presidente. Guidare questa associazione per quasi un decennio è stata, va da sé, una delle esperienze più entusiasmanti della mia vita. Perché ho condiviso con voi e con migliaia di altre ed altri una passione che non era e non è solo un generico impegno politico, ma la consapevolezza di stare dentro una delle fasi più interessanti del processo storico di liberazione di un popolo, del mio popolo.
Un popolo senza terra e senza confini, senza barriere di genere, classe, età, etnia, religione. Ma un popolo, ineliminabile nella sua presenza generazione dopo generazione, incomprimibile nel suo desiderio di esserci, di esprimersi individualmente e collettivamente, di perseguire liberamente i propri desideri, i propri amori e i propri sogni. Come ogni donna e ogni uomo di questo pianeta.
Un popolo che ha a cuore il rispetto per i tratti della propria identità, ma che non fa di questa identità un feticcio con cui contrastare altre identità, consapevole di quello che Amartya Sen ci ha di recente ricordato, che “La speranza di armonia nel mondo contemporaneo risiede in gran parte in una comprensione più chiara delle pluralità dell’identità umana, e nel riconoscimento che tali pluralità sono trasversali e rappresentano un antidoto ad una separazione netta lungo una linea divisoria fortificata e impenetrabile.”
In questi anni ho imparato, insieme a voi, a fare delle mia identità, delle nostre soggettività, strumenti per un mondo plurale e non una clava da brandire contro chi è diverso da noi.
Quello che ho fatto di buono in questi anni, poco tanto che sia, non sarebbe stato senza l’aiuto determinante di quelli e quelle di voi che ho avuto il mio fianco, che non nominerò perché l’elenco sarebbe lungo ma a cui va un mio particolare e affettuoso ringraziamento. Come un particolare ringraziamento va alle volontarie e ai volontari che hanno organizzato questo congresso con passione e impegno.
Questo lungo viaggio, che certo non termina qui, mi ha provocato momenti di intensa gioia, come stare dentro l’immensa folla del World Pride e di grande dolore, come la perdita di quelli di noi che hanno percorso la stessa strada ed oggi non ci sono più.
Di orgoglio per l’importanza della nostra azione, come quando abbiamo portato al Ministro della cultura di Cuba la protesta del movimento lgbt internazionale per la situazione della comunità lgbt cubana, e la consapevolezza di quanta strada c‘è ancora da fare, come quando siamo stati al centro delle cariche congiunte di polizia ed integralisti religiosi allo sfortunato Gay pride di Mosca.
Ora una tappa finisce, ma il viaggio continua ed io, ve lo posso assicurare, sarò ancora con voi.
Grazie.