Il branco insiste, tu non puoi reggere più quelle accuse infamanti, tu non sei finocchio, sei padre, marito, uomo con precedenti penali per rapina e da tre anni avevi comprato quel fucile a canne mozze per vendicarti, e lo avevi detto che lo avresti usato.
Ma la tua giovane vittima, non si sentiva intimorito, capetto di quel gruppo di giovani che ti molestava, ti faceva scherzi pesanti, non ti ha preso sul serio. Per questo la tua virilità non poteva continuare ad essere offesa, nessuno ti poteva tutelare, perché chi ti avrebbe dato retta? Le risate plateali o nascoste dietro la solidarietà di circostanza ti facevano impazzire. Come non ripiombare nell’Italia dei delitti d’onore, del machismo più bieco, dove la parola finocchio non era nemmeno prevista, ma c’era quella sempre pesante di cornuto?
Paradossale la tragedia consumata da Rosario Floramo, 49 anni residente in un paesino del messinese, Falcone, che uccide il venticinquenne Stefano Salmeri, calciatore dilettante, perché da anni lo prende in giro, lo perseguita con quell’accusa infamante d’essere finocchio.
Rosario ha un fratello, Francesco, che il 10 agosto del 1993 ha ucciso, sempre in provincia di Messina, un gay di 33 anni, Giuseppe Mandanici, dopo aver ricevuto 500.000 lire dal padre di Mandanici che voleva dargli una lezione perché non sopportava che fosse gay. Francesco Floramo è stato condannato per quell’omicidio a cinque anni e mezzo di carcere.
La storia a vederla nella sua interezza dà uno spaccato dell’abominio sociale in cui vivono pezzi consistenti del nostro territorio. Uccidere per difendere la propria supposta eterosessualità dopo che quattordici anni prima tuo fratello ha provocato la morte di un omosessuale, è talmente enorme ed incredibile che richiederebbe davvero che le istituzioni, sempre troppo latitanti, i mass media e i troppi opinionisti s’interrogassero sul volto moderno di pratiche antiche nutrite dall’odio nei confronti dei differenti. E’ sempre la necessità di far parte della società dei pari, che spinge gli assassini a dimostrare con il sangue, che lava ogni macchia, fa tacere ogni malignità vera e o falsa e che ti restituisce ai dominatori della comunità: maschi, eterosessuali, virilmente potenti.
Non può aiutarci lo scoramento e nemmeno l’indignazione. L’omofobia che uccide ha il volto di Matteo sedicenne studente di Torino che si getta disperato dal quarto piano, di Alfredo che si da fuoco sotto il colonnato di piazza San Pietro, di Giorgio e Antonino gli "ziti" di Giarre trovati morti nel 1980, di Rosario, Francesco, Stefano e Giuseppe. Vittime e carnefici, figli della storia dell’uomo, che non ha imparato nulla, che oltraggia le intimità, i corpi, le libertà, perché ha paura di perdere la predominanza.
Per questo è necessario il conflitto aperto rispetto a chi pensa che tutto ciò può impunemente continuare, rispetto a chi fa finta di non vedere, rispetto a chi alimenta tutti i giorni odio e violenza erigendosi ad autorità morale: dai preti che immoralmente difendono modelli della violenza familista ai conduttori televisivi che si avventano sulle tragedie per strappare punti di share, dai politici che si alimentano di vuote parole ai giornali che dimenticano il prima possibile.
Non ci sono scorciatoie; per non essere complici bisogna guardare dritto negli occhi il male e combatterlo fino in fondo, senza concedere nulla. Non ci sono mediazioni possibili: va sconfitto il machismo criminale che si espande come un tumore maligno nella società italiana.