"E’ bastato che le agenzie di stampa riportassero ampi stralci della recentissima voce curata da Alessandra De Rose per la settima appendice all’Enciclopedia. Ed ecco partire un imbarazzante fuoco di sbarramento. Così il quotidiano la Repubblica del giorno 9 novembre scorso introduce la polemica scoppiata a livello politico in seguito alla pubblicazione della voce "Matrimonio" redatta dalla sottoscritta sull’aggiornamento in due volumi dell’Enciclopedia Treccani.
Oggetto del contendere è l’ampio spazio – peraltro esplicitamente richiesto dal curatore del volume, il filosofo Tullio Gregory, interessato a mettere in evidenza le tendenze in atto agli albori del XXI secolo – dedicato al fenomeno delle unioni di fatto, tanto eterosessuali che omosessuali, ed al confronto tra il contesto culturale ed istituzionale italiano rispetto allo scenario europeo. Apriti cielo! Si sono riaccesi i riflettori su un problema che la nostra politica sembrava aver messo almeno temporaneamente da parte. Eppure nella voce si riportano semplicemente dati e si descrivono fatti, documentati.
Veniamo, dunque, alla loro narrazione. Dalla metà degli anni Settanta del secolo scorso, il matrimonio, definito come la sanzione legale del legame affettivo e sessuale tra un uomo e una donna, è entrato in crisi in tutti i paesi occidentali. In Italia un primo indicatore del declino della nuzialità è la riduzione del numero di sposalizi: dagli oltre 300.000 matrimoni celebrati ogni anno a metà degli anni Novanta si è passati a poco più di 250.000 nel 2005, quasi trentamila in meno rispetto a cinque anni prima. È anche fortemente diminuita la quota di celebrazioni con rito religioso, passata dalla quasi totalità all’inizio del 20° sec. a meno del 70% all’inizio del 21°. Al calo del numero di matrimoni è associato l’innalzamento dell’età alla quale ci si sposa: nel 2002, infatti, gli uomini celibi hanno contratto matrimonio in media a 30,5 anni contro i 25,9 anni del 1991 e le donne a 27,6 contro i 24,1 del decennio precedente. Le generazioni più giovani tendono a sposarsi, se si sposano, sempre più tardi.
Queste tendenze della nuzialità – riduzione e ritardo – si osservano pressoché nella totalità dei paesi europei. Ma, mentre in Italia e in alcuni pochi altri paesi dell’Europa mediterranea con forte tradizione cattolica il matrimonio continua a rimanere la modalità prevalente di formazione di una nuova famiglia, nell’Europa Continentale e, prima ancora, nei paesi Scandinavi esso è stato in larga misura soppiantato dalla libera convivenza. Un’indagine comparativa condotta dall’UN-ECE alla fine degli anni Novanta rilevava, per esempio, che la percentuale di donne di 35-39 anni conviventi con un partner in un’unione di fatto andava dal massimo del 30% in Svezia al minimo del 4% in Italia, ed il contrasto era ancora più evidente confrontando le percentuali di donne che sperimentano una convivenza prima di contrarre "regolare" matrimonio.
La conseguenza è piuttosto seria dal punto di vista demografico perché in Italia o ci sposa (in ritardo) o si rimane sostanzialmente fuori dai processi di formazione di una nuova famiglia, inclusa la riproduzione. Infatti, dal momento che ovunque la nascita dei figli avviene, in oltre il 90% dei casi, all’interno di una relazione stabile di coppia basata sulla convivenza, il mancato "rimpiazzo" dei matrimoni persi e/o ritardati con unioni di fatto implica una contrazione almeno equivalente della natalità.
Il numero di coppie che opta per la libera unione, non sancita cioè, almeno immediatamente, da un atto con validità legale, sta comunque aumentando anche nel nostro paese: le unioni di fatto sono passate dall’1,8% nel biennio 1994-95 al 3,6% del totale delle coppie, pari a 510.000 unità, nel 2001. L’indagine campionaria sulle famiglie condotta dall’ISTAT relativa al biennio 2002-03 rileva 564.000 unioni di fatto. Queste coppie sono piuttosto diverse da quelle tradizionali, sia come caratteristiche dei partner coinvolti – mediamente più giovani, più istruiti, meno prolifici e con un rapporto di genere tra i partner più paritario – sia per le condizioni di partenza che hanno dato origine alla relazione stessa. Si tratta, infatti, spesso di step-families, cioè di nuove coppie, anche con figli già nati, che si costituiscono all’indomani di un precedente fallimento coniugale o di una vedovanza.
Nel tempo, tuttavia, all’aumentare della loro frequenza, le unioni di fatto "somigliano" sempre di più alle famiglie fondate sul matrimonio, divenendo sempre più stabili, di lunga durata e con figli. Inevitabilmente, allora, cresce la loro domanda di riconoscimento di diritti e l’eliminazione di ogni residua discriminazione rispetto alle famiglie "regolari". Già tra gli anni Sessanta e Settanta del 20-mo secolo, tutti i Paesi, compresa l’Italia, hanno varato norme legislative a tutela dei figli nati fuori dal matrimonio, equiparando la loro posizione a quella dei figli legittimi. Ma mentre l’Italia e pochi altri paesi (Austria e Grecia) si sono fermati lì, nei paesi Scandinavi prima e via via nel resto d’Europa si sono introdotti nuovi istituti o modifiche di quelli esistenti che riconoscono all’unione di fatto uno status giuridico molto simile al matrimonio, tanto nel campo fiscale e della sicurezza sociale, quanto in quello patrimoniale. E ciò anche in ottemperanza all’art. 9 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, approvata a Nizza nel 2000 e recepita nel Trattato costituzionale europeo, che espressamente riconosce il diritto al matrimonio e il diritto a costituire una famiglia come diritti distinti.
Gli strumenti normativi sono diversi, e comprendono, per esempio, i Pacs in Francia (Patti civili di solidarietà), contratti di diritto privato conclusi tra due individui maggiorenni che decidono di organizzare la loro vita in comune, il Civil partnership bill approvato in Gran Bretagna nel 2004, o semplici modifiche al Codice civile quali quelle approvate dal Parlamento spagnolo nel 2005, dove si sostituiscono le parole ‘marito e moglie’ e ‘padre e madre’ rispettivamente con ‘coniugi’ e ‘genitori’; tutti prevedono, comunque, norme fiscali, regole per la successione patrimoniale e per l’alloggio in caso di morte di uno dei due partner, congedi per l’assistenza del partner o dei figli, e infine regole anche in caso della fine dello scioglimento dell’unione. E gli stessi diritti si estendono, più o meno esplicitamente, anche alle coppie formate da due omosessuali: addirittura in Belgio e in Olanda e, dal 2005 anche in Spagna, ad esse è garantito anche l’accesso al matrimonio ed alla genitorialità (mediante adozione o fecondazione assistita).
Questa, dunque, la narrazione dei fatti. La voce dell’enciclopedia si chiude con la constatazione che in Italia il dibattito sul riconoscimento dei diritti delle unioni di fatto e l’estensione a quelle omosessuali è molto acceso – almeno lo è stato fino a qualche mese fa – ma non ha prodotto a livello nazionale alcuna sostanziale modifica istituzionale, che consenta "di garantire anche in tale materia, in uno Stato laico e democratico, i basilari principi di equità sociale". Ma che il nostro paese sia indietro su questo cammino è un fatto. E che quello italiano sia uno Stato laico e democratico è anch’esso un fatto. O no?
Alessandra De Rose
redattrice dell’aggiornamento della voce "matrimonio" sull’enciclopedia Treccani