HIVoices – La Ricerca

  

fonte: http://www.casserosalute.it/blog/?p=959

Anche in Italia, i gay HIV+ costituiscono una parte importante sia della popolazione gay che di quella HIV+.

Ciononostante, poco si sa su come vivano e cosa pensino. La ricerca HIVoices contribuisce a colmare questo vuoto. L’indagine è stata realizzata durante l’estate 2011. Ha coinvolto i partecipanti di 3 edizioni del laboratorio HIVoices. 12 sono state le storie di vita raccolte tramite interviste faccia-a-faccia e 50 i questionari on line auto-compilati, in 9 regioni – soprattutto del Nord e Centro Italia.

Raffaele Lelleri è stato il responsabile scientifico dello studio.

D – Raffaele, raccontaci com’è stato fare questa ricerca.
R – E’ stata un’esperienza molto importante per me – come persona, come gay, come cittadino e come sociologo. I temi trattati e le persone che ho incontrato mi hanno fatto molto riflettere. Ho imparato molto.
Questa ricerca è stata una sfida sotto molti aspetti. Desidero ringraziare Priscilla Berardi, che ha collaborato all’analisi, e i numerosi colleghi e colleghe, amici ed amiche, che mi hanno consigliato e sostenuto. Credo che i risultati che abbiamo ottenuto tutti assieme siano molto significativi per il nostro Paese.

D – Qual’è la fotografia che emerge sui gay HIV+ oggi in Italia?
R – E’ un’immagine con chiari e scuri.
Da un lato vi sono vari aspetti positivi, quali:

  • l’ottimismo
  • la partecipazione
  • le condizioni fisiche di salute
  • le abilità nelle pratiche sessuali
  • la rielaborazione del “lutto” relativo alla siero-conversione
  • la visibilità con gli operatori sanitari
  • la fiducia e la soddisfazione nei confronti degli operatori sanitari – specie nei casi in cui è un unico specialista ad avere in cura la persona.

Dall’altro lato, altrettanto frequenti sono ora e/o sono stati nel passato elementi critici, come ad esempio:

  • i pensieri di suicidio
  • i rischi corsi nelle pratiche sessuali
  • l’insoddisfazione per la propria vita sessuale
  • le esperienze di rifiuto
  • l’invisibilità sociale in quanto persona con HIV
  • la fatica nel continuare a tenere desta l’attenzione sui rischi di trasmissione del virus, specie nel rapporto di coppia

D – Ma i gay HIV+ sono tutti uguali?
R – No, sono un gruppo piuttosto eterogeneo. C’è una netta linea di demarcazione al loro interno: chi è in trattamento farmacologico e chi no.
Si tratta di un gruppo che va cercandosi e sta costruendo una sorta di identità collettiva comune.
E’ un gruppo, inoltre, che si mostra informato e allo stesso tempo cauto nei confronti delle innovazioni farmacologiche e curative elaborate dal mercato e dalla comunità medica, ad eccezione dell’inizio precoce del trattamento, che raccoglie infatti vasti consensi.

D – C’è qualche risultato che ti è rimasto particolarmente impresso?
R- Sì, almeno un paio. Il primo riguarda la domanda: “Quale pensi che sia stata la tua principale modalità di trasmissione del HIV?” (fig.1)

Figura 1

Spiccano alcune tendenze importanti, secondo me.

  • Innanzitutto, molto più variegata del previsto è la modalità percepita della propria infezione.
  • Non tutti i gay HIV+ raccontano di essere entrati in contatto col virus per via sessuale.
  • Inoltre, non tutti coloro che si sono infettati per via sessuale attribuiscono direttamente la causa al sesso penetrativo anale non protetto con un uomo. Il sesso di altro tipo e il rapporto oro-genitale raccolgono infatti quasi 1 caso su 4.
  • Più di 1 persona su 20 dichiara di non sapere il motivo del proprio contagio.
  • Il 30,6%, in conclusione, riporta una modalità di trasmissione dell’HIV non “standard”, secondo l’epidemiologia, o non ne menziona alcuna.

D- E il secondo risultato di rilievo?
R- Riguarda il trattamento farmacologico.
Abbiamo chiesto che timori hanno e/o hanno avuto nei confronti dei farmaci (Fig. 2).

Figura 2Con l’eccezione dei timori per gli effetti collaterali negativi di lungo periodo, che risultano sostanzialmente costanti, le risposte raccolte sono molto diverse a seconda della condizione in cui si trovano gli intervistati.
Tre sono le ipotesi da tenere presenti, secondo me, per interpretare queste differenze:

  1. Tra chi è ora in trattamento, nettissima è la differenza tra i timori attuali e quelli attesi all’inizio dello stesso: le persone hanno molto meno timore ora di un tempo. Di certo, influisce il sostanziale miglioramento dei farmaci immessi sul mercato in questi anni.
  2. Questa non può però essere l’unica spiegazione, visto che rilevante è la differenza, tutta incentrata sul tempo presente, che c’è tra chi è in trattamento e chi non lo è. Indipendentemente dagli aspetti meramente tecnici e farmaceutici, vi è probabilmente un elemento di tipo ‘esperienziale’ a fare la differenza: chi non ne ha contatto diretto tende ad avere più timore degli altri perché le uniche informazioni che possiede e su cui fonda le proprie opinioni sono mediate e restituiscono una realtà datata e non più attuale. Questo quadro è del resto coerente con due ulteriori peculiarità:
    • il fatto che nel nostro Paese le rappresentazioni sociali più radicate sull’HIV/AIDS siano ancora quelle degli anni ‘90 (la campagna dell’”alone viola”), comprese quelle sulla terapia;
    • il fatto che la maggior parte dei rispondenti racconti di avere avuto, prima del laboratorio HIVoices, molto poche occasioni di scambio e di confronto personale con persone HIV+ (che avrebbero potuto informarli sull’evoluzione, e sui successi conseguiti, della terapia).
  3. Infine, un terzo ordine di motivi, tra le persone in terapia, riguarda una caratteristica frequente del momento dell’inizio del trattamento. Esso è solitamente un momento di elevati stress ed incertezza per il paziente, che tenderebbe quindi a sovrastimare, in quella fase, atteggiamenti di preoccupazione e di ansia.

Al di là di queste tre ipotesi, è chiaro che quello nei confronti dei farmaci è un atteggiamento complesso e dinamico, che contiene anche elementi psicologici e sociali, come ad esempio: le aspettative, le relazioniinterpersonali, le opinioni, le incertezze, gli equivoci…

Tutto ciò deve essere debitamente conosciuto e preso in considerazione da parte dei medici e delle industrie farmaceutiche, se il loro obiettivo è relazionassi autenticamente con il paziente, al fine, ad esempio, di ottenere l’adesione e la fiducia. Soluzioni meramente ‘tecnologiche’ (ad esempio: la ‘pillola unica’) rischiano di non centrare l’obiettivo se non vengono comunicate efficacemente e se non trovano risposte significative ai bisogni reali delle persone con HIV.
La terapia non può essere data per scontata, in altre parole, ma va adeguatamente compresa e soprattutto fatta propria e condivisa dal paziente.

I risultati dell’indagine verranno diffusi e presentati nel dettaglio in occasione di una giornata seminariale che si terrà il prossimo 15 maggio all’interno delle manifestazioni legate al Pride nazionale di Bologna.

Sandro Mattioli
Responsabile Salute
Arcigay Il Cassero


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