«Giustizia per mio figlio crocifisso come Gesù»

  

La madre del ragazzo suicida. Napolitano contro l’omofobia
ROMA La chiesa è troppo grande anche se tutto il liceo scientifico Cavour è qui, la preside, professori e studenti fino a tre giorni fa «scialli» e spensierati mentre organizzavano concerti e lezioni alternative e adesso tutti con gli occhi lucidi inchiodati alla bara di Andrea coperta di rose bianche. Increduli. Dentro c’è uno di loro. A 15 anni. Incapaci persino di immaginarla, una cosa tanto grande. Il loro compagno con gli occhiali, quello dello smalto sulle unghie e i pantaloni rosa, quello eccentrico e ironico, più forte di tutti perché se ne fregava dei pregiudizi e di chi su Facebook lo prendeva in giro, non lo vedranno più. E quanto già gli manca. «Sei un folle legge una ragazza, interrompendosi più volte tra i singhiozzi e i folli sono sempre i migliori. Hai distrutto una classe intera, ma ti ricorderemo sempre… Eri una persona speciale, ci hai fatto cambiare idea su molte cose». San Lorenzo fuori le Mura, piazzale del Verano. É a ridosso del cimitero monumentale, nel posto più triste e lontano dai colori delle loro aule occupate, che gli amici del liceale suicida perché offeso, sbeffeggiato, vittima di cyberbullismo forse perché gay, o solo perché troppo anticonformista, sono venuti a imparare da lui. Le parole per salutarlo le hanno trovate, sì, ma nella lingua delle loro canzoni: We’ll never find someone like you («Non troveremo mai uno come te») hanno scritto su uno striscione appeso alla cancellata. Dentro, la funzione scivola via senza tensioni. E invece è proprio davanti alla basilica, alla fine della messa, che la mamma di Andrea trova il coraggio di gridare ciò che gli preme in petto. «Lo hanno crocifisso come Gesù, voglio giustizia! Ora la mia forza sono gli amici veri, chi l’ha diffamato lo voglio fuori. Quelli marci oggi sono il marcio del futuro!», ammonisce quasi a maledirli, se quelli che l’hanno denigrato hanno osato venire al funerale. Un attimo dopo la signora, mentre la bara le passa vicino, è al suo piccolo che si rivolge: «L’unico colore rosa è quello della sua sensibilità. Se fosse stato gay me l’avrebbe detto senza vergogna. Io c’ero sempre per lui». La guardano, tanti piangono senza freni: «La foto su Facebook in cui appariva truccato era di Carnevale, ma l’hanno voluto deridere, farne un mostro. Un profilo diffamante creato da persone cattive». Andrea, la faccia feroce del web, la paura della differenza. E una tragedia che ha scosso l’Italia, sulla quale indaga anche la Procura di Roma con l’ipotesi di istigazione al suicidio. Negli stessi minuti in cui il prof di religione, ieri pomeriggio, invitava i ragazzi a prendersi per mano attorno alla bara sotto l’altare, il Quirinale diffondeva un messaggio del presidente della Repubblica al congresso dell’Arcigay. «C’è preoccupazione per il persistere di intollerabili atteggiamenti omofobi ha scritto Giorgio Napolitano che ledono diritti e dignità della persona e ai quali bisogna opporre un fermo rifiuto». Le istituzioni si muovono. Sale il grido d’allarme. In Rete diventano migliaia i profili contrassegnati dal colore rosa. Su Twitter spopola l’hashtag #ioportoipantalonirosa. Il presidente della Provincia di Roma, Nicola Zingaretti, fa sapere di aver aderito a «Stay Pink», iniziativa lanciata da un gruppo di giovani, e dunque oggi indosserà «qualcosa di rosa per dire no alla discriminazione». La parlamentare del Pd Paola Concia, la sola che i ragazzi hanno fatto entrare nel liceo, alla quale hanno confidato che Andrea stesso aveva partecipato alla costruzione della pagina di Fb che sembrava deriderlo, ringrazia il capo dello Stato: «Dalle sue parole le forze che si sono opposte ad una legge contro l’omotransfobia, ovvero Pdl, Udc e Lega, si ravvedano e ci lascino approvare una norma di cui il Paese ha estremo bisogno». La messa è finita. Una compagna sfila dalla custodia un violino e gli dedica un brano. L’applauso risuona nella navata. Abbracci, ricordi. «L’ora di religione non voleva farla sussurra l’insegnante poi una volta l’ha seguita e si è divertito. Lui era contento di stare in quella classe, perché lo accettavano per quel che era. Oggi ci ha chiamati qui per darci una lezione». Già, la lezione di Andrea: chissà quanti dei ragazzi che ora annuiscono ripensano a una loro frase infelice, una battuta in falsetto, uno sfottò gridato all’uscita da scuola. Fabrizio Peronaci


  •