Palermo. Massimo e Gino, pionieri delle nozze “La nostra battaglia lunga vent’anni”

  

QUANDO hanno deciso di sposarsi simbolicamente il 28 giugno del 1993 in piazza Pretoria davanti al Palazzo delle Aquile non pensavano che ci sarebbero voluti venti anni per arrivare a un registro delle unioni civili. Massimo Milani e Gino Campanella, storica coppia gay, fra i fondatori dell’Arcigay a Palermo, prima associazione in Italia, hanno iniziato la loro battaglia «contro ogni discriminazione e per l’uguaglianza dei diritti» negli anni Settanta e nel 2013 hanno diversi motivi per festeggiare: venti anni dal loro matrimonio, 35 di convivenza e infine anche il registro delle unioni civili in una città dove omosessuali e coppie
gay, quando loro sono usciti allo scoperto, vivevano come fantasmi. «Sapevamo che sarebbe stata dura — dicono Massimo e Gino — ma non pensavamo ci sarebbero voluti venti anni e chissà quanto tempo ancora per una legge nazionale che ci equipari a tutti gli altri. Ma noi rimaniamo qui per continuare la nostra battaglia per la libertà anche a nome di tutte le persone che non hanno voce. Dal giorno del nostro matrimonio
abbiamo sentito questa responsabilità ».
Alle cinque del pomeriggio del 28 giugno del 1993, giornata internazionale dell’orgoglio gay, piazza Pretoria è piena di gente. Cronisti e inviati da tutta Italia aspettano gli sposi sotto casa in vicolo Bellini. Sono davvero in tanti. La foto di Gino in completo rosso fuoco, papillon e camicia nera con Massimo in frac bianco con code a strascico, appare anche in un trafiletto del “New York Times”. Il sì viene pronunciato sulle scale della chiesa di Santa Caterina, davanti al consigliere comunale del Pds Ernesta Morabito con la fascia tricolore e a oltre duecento omosessuali. La formula di rito e poi lo scambio degli anelli, il bacio, il lancio del bouquet e il ricevimento con amici e parenti. Tutto vero, tranne la sostanza. Quello di Massimo e Gino, infatti, è un matrimonio simbolico, il primo
in Italia dopo quelli di una decina di coppie gay celebrati in piazza Duomo a Milano l’anno prima.
«Il nostro — dicono — è stato un atto simbolico ma pieno di significato. Un dovere non un atto di coraggio. Eravamo davvero emozionati. Rispondevamo a una società maschilista e mafiosa come era Palermo allora, appena un anno dopo le stragi. Di azioni simboliche da qual momento ce ne sono state tante, adesso servono leggi concrete. Contiamo sul fatto che questo registro cambi davvero le cose e che non rimanga soltanto sulla carta. Oggi le cose sono molto diverse in tema di matrimoni gay, l’Europa ce lo insegna».
«Siamo stati un esempio per tutti — raccontano — anche perché abbiamo
sempre condotto una vita alla luce del sole, vivendo al centro della città e aprendo le porte della nostra bottega a tutti. La gente che ancora oggi ci incontra per strada pensa che siamo davvero sposati. Ci sono tanti giovani che hanno difficoltà a dire in famiglia che sono omosessuali e che vengono da noi a cercare un appoggio e un aiuto. E noi siamo
Sapevamo che sarebbe stata dura. E dovremo aspettare ancora chissà quanto per una legge che ci equipari agli altri
Il nostro è stato un atto simbolico ma pieno di significato. Eravamo emozionati, siamo stati un esempio per tutti


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