Silvia Mastrantonio
ROMA LUI ERA IL CAPO’. Antonio Manganelli era questo per ogni uomo o donna che indossi la divisa della Polizia. A volte criticato, in qualche momento anche osteggiato, comunque sempre rispettato. Un rispetto che Manganelli si era guadagnato sul campo. Ieri, diffusa la notizia della scomparsa, accanto ai nomi altisonanti che hanno espresso il loro cordoglio, sono comparse figure diverse. Arcigay che gli ha dato atto di essersi impegnato contro l’omofobia; i giovani di Ammazzatecitutti’ che gli hanno riconosciuto l’impegno contro la mafia; il garante per l’infanzia che gli tributa la particolarità di «aver fatto la differenza»; gli animalisti che ancora menzionano il suo operato attento contro i combattimenti tra cani a Palermo. Storie di contorno rispetto all’ossatura portante di quello che è stato il suo lavoro, la sua vita. Ma indicativi di un uomo che vedeva la legalità a tutto tondo, in ogni espressione che questa possa ricoprire. Sapeva, Manganelli, che il vero cambiamento arriva se cambiano i giovani ed a loro voleva che arrivasse il principio stesso della legalità. «Perché conviene» amava ripetere. E, diceva, sicurezza non è se non è partecipata’. Ha lavorato con Falcone, con Borsellino, ha costruito la sua carriera seguendo un unico motto: «Non sono uomo di poltrone, ma uno che ha coronato il suo sogno di ragazzo: fare l’investigatore». Seppure asceso al vertice, quel guizzo da investigatore capace, fantasioso e insieme rigoroso nel rispetto delle regole, non l’ha perso mai. LA VITA non è stata generosa con Manganelli. Almeno da quando, due anni fa, ha deciso di riservargli la scoperta di un male non più incurabile, ma molto grave. Due anni di battaglie combattute anche in trasferta negli Usa. E lui continuava a lavorare: «In videoconferenza, ma non ha mai mollato». C’era anche così, anche tra un trattamento e l’altro, mentre il suo corpo seguiva il volere dei farmaci ingrassando e dimagrendo al ritmo dei rimedi via via tentati. Non sono bastati i farmaci, non è bastato l’intervento per la rimozione dell’edema cerebrale, non sono bastate le preghiere dei suoi cari e dei familiari’ della polizia. Lui se n’è andato lo stesso, con la discrezione e il riserbo che l’hanno distinto. Perché non era tipo da feste e cene nella Roma barocca tanto cara al potere. «Io sono un poliziotto di strada e tale resterò sempre». Uno come gli altri, come quelli delle pattuglie che devono fare i conti con la poca benzina nei depositi. Poi, a vedere il suo curriculum, si parla di mille operazioni, di Buscetta e dei pentiti, dei giudici di prima linea e della capacità, onesta e trasparente, di riconoscere i torti della Polizia. Come nel caso di Federico Aldrovandi, ucciso in maniera colposa da quattro poliziotti. E COME DOPO le condanne definitive per il G8 di Genova quando Manganelli, misurando le parole, ma non la sostanza, chinò il capo: «C’è bisogno di scuse». Nei confronti di quanti «avevano subito danni» da quei fatti e degli altri che riponevano fiducia nelle forze dell’ordine e avrebbero dovuto continuare a farlo. La trasparenza era da sempre un suo chiodo fisso. La polizia come una casa di vetro, perché tutti potessero guardarci dentro.
Il cordoglio per Antonio Manganelli
Questo articolo è stato scritto il 21 marzo 2013.
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