Inverno 2004: lo ricorderò per alcuni progetti artistici e letterari andati a buon fine, per un’utopia cinematografica che sta diventando realtà (sono scrittore e sceneggiatore) e perché, quasi vent’anni dopo averlo lasciato, sono rientrato in contatto con il movimento gay. Questo articolo nasce da una conversazione telefonica, seguita da una e-mail che ho inviato all’Arcigay nazionale. Gli amici dell’Arcigay mi stanno affiancando in una difficile battaglia a favore di un ragazzo gay che — proprio a causa del suo orientamento sessuale – subisce ogni giorno violenze fisiche e morali in famiglia e forme di discriminaziione più o meno consapevoli a scuola e presso i servizi sociali. Un momento di lotta e di solidarietà ci ha riuniti.
Ho iniziato a scrivere l’articolo dopo aver ricevuto la risposta di Arcigay: “…Sarebbe molto bello se tu volessi scrivere, partendo da questa lettera che scrivi a noi, un articolo-testimonianza sulla tua esperienza. Saremmo davvero lieti di pubblicarlo sul nostro sito web, in modo che tutti gli attivisti della nostra Associazione possano leggerlo”.
Parto da lontano: nel 1975 avevo 16 anni e scrivevo poesie gay e inni alla vita. Alla mia opera si interessarono alcuni intellettuali della sinistra italiana, dal filosofo Fulvio Papi — il mio mentore – ai poeti Franco Loi e Vittorio Sereni. Mentre mi si chiedeva un’adesione politica che — al di là del mio naturale amore per lo spirito della sinistra – contrastava con la libertà di pensiero e sentimento che era (ed è tuttora) alla base dei miei ideali, notavo che la mia “inclinazione sessuale” — il mio “sentire”, come la definivano quei personaggi importanti e influenti – era per loro ragione di imbarazzo, quasi potesse riflettersi sulla loro immagine. Il movimento per i diritti dei gay in italia era agli albori e la gente comune era convinta che l’omosessualità fosse una malattia mentale. Eppure, vivevo la mia indole — perché chiamarla con il termine riduttivo di “condizione”? – con una certa libertà, parlandone con i miei coetanei e, sia pure lasciando un po’ di spazio al dubbio, la famiglia e gli insegnanti.
Nel 1978 ero in contatto con un attivista gay di Torino ed ero entusiasta all’idea di partecipare a un corteo per i diritti degli omosessuali, previsto per la fine di giugno. Alla fine, non presi parte a quella manifestazione — una delle prime, credo – perché percepii una certa prevalenza dell’aspetto legato alla libertà sessuale dei gay rispetto a quello della loro dignità di persone. Vi era indubbiamente il desiderio di “uscire fuori” con coraggio, ma prevalevano, a mio avviso, in quelle prime iniziative, aspetti trasgressivi e una troppo caratterizzata drammatizzazione dell’ambiguità sessuale: una “maschera” dietro cui si nascondeva il desiderio di riscattare un’epoca lunghissima di ingiustizie, torti, discriminazioni, abusi subiti. Sembrava che la priorità assoluta fosse quella di dichiarare la propria identità sessuale, aggregarsi e liberarsi attraverso un’affrancamento totale dei costumi omoerotici. La gente, mi chiedevo, avrebbe recepito correttamente il messaggio degli omosessuali? Avrebbe compreso le loro istanze, le loro giuste rivendicazioni, la loro aspirazione all’accettazione in seno alla società? Non ne ero convinto, perché nessuno sembrava curarsi di proporre l’immagine di una “normalità gay” e in effetti, a distanza di oltre 25 anni, mi pare che l’omosessualità sia ancora un oggetto misterioso e inquietante, agli occhi dei più. “Sei un gay” è tuttora una delle frasi ricorrenti nel linguaggio dei giovanissimi, quando intendano offendere o mettere alla berlina qualcuno. Eppure i fondatori del movimento gay italiano, con le loro contraddizioni, i loro errori, ma anche le loro battaglie e le loro conquiste, devono essere considerati e ricordati con gratitudine e ammirazione dalla nuove leve, perché i loro primi piccoli passi hanno segnato una strada da percorrere, verso l’abbattimento delle discriminazioni di cui i gay sono ancora oggi vittime. E’ una strada in salita, irta di difficoltà, che sembra non finire mai, ma è la via maestra verso l’orgoglio.
Nel 1983 — l’anno del suicidio di Mario Mieli – entrai in contatto con “Babilonia”, il mensile di cultura gay diretto all’epoca da Ivan Teobaldelli e Felix Cossolo, con Mario Anelli, se non sbaglio, segretario di redazione e già assai impegnato nelle battaglie civili per i diritti gay. Giovanni Dallorto: come dimenticare la sua passione, il suo idealismo, il suo amore per la letteratura, l’arte, la filosofia omosessuale? Sembrava un archeologo, sempre alla ricerca di “reperti gay” negli strati più nascosti di una società eterocrate! Lavorai nella redazione per alcuni anni, occupandomi anche della cronaca italiana. A volte ricevevo telefonate da parte di ragazzi gay, sempre emozionati, perché si identificavano in quella rivista e in noi che, in un modo o nell’altro – sbagliando spesso e azzeccando ogni tanto qualcosa di buono – ci esponevamo e impegnavamo quotidianamente per contribuire alla causa degli omosessuali. Non offrivamo loro particolari punti di riferimento, ma solo consigli e solidarietà; personalmente, avevo un’agenda in cui erano segnati i nomi e i numeri telefonici di un avvocato, un assistente sociale, una psicologa e perfino un prete gay! Iniziativa personale: oggi come allora, la vera forza di un movimento!
Contemporaneamente prendeva vita un mio progetto: quello di creare un gruppo di poeti e musicisti gay che tenessero performance pubbliche. Il gruppo ebbe diverse “formazioni” e tenne indimenticabili serate di poesia e musica, fra le quali ricordo “Entropoesia”, presso il locale “Entropia” di Milano e soprattutto una grande performance nella corte di Palazzo Accursio, a Bologna, il 28 giugno 1984, nell’àmbito dei festeggiamenti dell’orgoglio omosessuale. Ricordo ancora l’incredibile emozione che provai afferrando il microfono davanti al pubblico che riempiva la corte e iniziando a leggere la mia prima lirica, composta per l’occasione: “Questi giorni d’orgoglio passeranno / come un carnevale di maschere bianche / se non ci lasceranno dentro / una traccia anche lieve / e nella traccia, un seme. / Un seme grande come un desiderio, / grande come un’idea…”. Il gruppo si sciolse nel 1985, ma fu qualcosa di unico e straordinario.
Nel periodo di Babilonia conobbi un gran numero di attivisti, intellettuali e artisti gay. Si andava a ballare, qui a Milano, alla Nuova Idea o — se ci si voleva mescolare alle coppie “regolari” – al Plastic. Non c’erano gli House Club, come in America. Si ballava anche “Una terra promessa” di Eros Ramazzotti. Con i miei amici, si parlava di Genet e Duvert, di Francis Bacon e Pierre et Gilles, di Penna e Tondelli. Amici ne avevo tanti, conosciuti in tutta Italia grazie agli annunci su Babilonia. Per una serata diversa, si andava al Rick’s Cabaret, dove si tenevano i migliori spettacoli “en travesti” e alla fine… si beveva qualcosa con gli artisti, che parodiavano le dive degli anni ’20 e ’30, chi Greta Garbo, chi Marlene Dietrich.
Il movimento gay degli anni ’80, l’ho conosciuto bene. Più che di movimento, parlerei di una corrente di energia, quasi un karma-gay che ci induceva a cercarci, aggregarci, fare progetti insieme.
Sono passati quasi vent’anni, ma è stato bello rientrare in contatto con l’Arcigay e ricordare — già al telefono – piccoli e grandi momenti della mia esistenza, quando cercavo di comprendere se la vita gay fosse felice o infelice e se idealmente esistesse — ne abbiamo parlato una volta anche con Franco Grillini e Maurizio, a Milano – un “popolo gay”. In quegli anni di amore omo-universale, talora disincarnato, socratico più che platonico, compresi che la vita gay ha le stesse possibilità di gioia e di qualsiasi altra vita. L’amore ci inebria tutti, gay ed etero e l’opinione altrui ci piega o ci fortifica. “Beato chi è diverso, essendo egli diverso, ma guai a chi è diverso, essendo egli comune”. Come eravamo e come siamo; come ci sosteniamo l’un l’altro; quale memoria conserviamo dei nostri simili che hanno lasciato un segno nelle nostre vite: sono le stesse domande che oggi ci mostrano la nostra immensità o la nostra inconsistenza umana. Ritorno su un’esperienza che per me fu simbolica, indimenticabile: quando venni a Bologna con i miei amici, per leggere poesie nel giorno dell’orgoglio, il 28 giugno 1984. Il Cassero conservava, fino a qualche anno fa, un video di quell’evento. Nel mio gruppo c’erano Dario Bellezza, Christopher White, Paola Astuni — a mio giudizio la più grande poetessa transessuale di ogni tempo, incredibilmente (ma quanto?) dimenticata. C’eravamo Alberto Ciarpella – con la sua chitarra sensibile, straziata e “deforme” come un torso uscito da un quadro di Francis Bacon – e io, che in una performance irripetibile innamorammo anche fisicamente un pubblico “di tutti i sessi”. Ma chi non si innamora degli angeli? E noi, cosa eravamo? C’erano i nostri amici, Giordano e Mauro, Aldo, Valerio e Maurizio, se ricordo bene. Alcuni di loro non hanno avuto poi un destino felice. Altri sì. Di ognuno conservo piena memoria e anche i morti vivono in me. Ma è tempo ancora di amare; sulle tempie non sono segni dell’età, ma bagliori di luce. E’ tempo di amare e di combattere. “Arrendersi? Mai!” esclamerebbe Cyrano, nostro fratello.
Libertà
E sono proprio l’amore, l’orgoglio, il disprezzo per le mille forme striscianti di omofobia che avvelenano ancora la società ad avermi riavvicinato al movimento gay, in cui ritrovo amici di un tempo e riconosco affinità nei nuovi attivisti. L’obiettivo della mia lotta di oggi — una missione, quella che Kavàfis avrebbe definito “Viaggio per Itaca” – è la libertà, la serenità di un ragazzo di 16 anni, che viene dal Perù, vive da tre anni a Milano e reca il dolore e i segni del martirio gay. I nostri nemici — nostri, perché ci unisce un vincolo indistruttibile d’amore – non sono i Lestrigoni né i Ciclopi, ma i suoi genitori, gli insegnanti, gli psicologi, gli assistenti sociali, le autorità cui fino a oggi si è rivolto il ragazzo. “Non temerai questi mostri / se il tuo pensiero rimarrà elevato e un sentimento / incrollabile guiderà la tua anima e il tuo corpo”. E’ Kavàfis. A causa della sua omosessualità, il ragazzo subisce dal padre ogni genere di violenza fisica e morale; recentemente l’ho condotto io stesso al pronto soccorso del Fatebenefratelli di Milano con il viso tumefatto. Da sei mesi è seguito dai servizi sociali eppure, incredibilmente, vive ancora in famiglia, in totale segregazione, umiliato, insultato e minacciato quotidianamente. Agli assistenti sociali e agli psicologi che si occupano del suo caso sembrano bastare le giustificazioni fornite dal padre, un uomo violento che più volte ha percosso anche la moglie: “Mio figlio è omosessuale, frequenta brutte compagnie, sono disperato e sto cercando di raddrizzarlo”. Sembra un paradigma platonico: “La suprema forma di ingiustizia è quella di passare per giusto quando giusto non si è”. Ma perché trionfi un simile abominio, bisogna che esso affondi le radici nell’ignoranza e nel pregiudizio. Sarò al fianco del mio amore finché prevarrà ciò che è giusto e umano; in questa lotta mi affiancano gli avvocati che l’Arcigay mi ha suggerito. L’obiettivo non è solo il bene di un ragazzo, ma — a mio avviso – il concetto stesso di giustizia ovvero qualcosa che riguarda da vicino ognuno di noi.