Il’Quotidiano Nazional’ dell’8 aprile ’05
BOLOGNA — Sai quanti malintesi, ancora. «Basta andare al supermercato. Pagare con una carta di credito. Lì sopra c’è scritto ‘Stefano’. Per l’anagrafe sono sempre un uomo. Perché non ho fatto l’operazione. Sono arrabbiata, con ’sta legge. Quell’intervento mi spaventa. Ci sto pensando, certo. Intanto prendo gli ormoni. Ho cominciato cinque anni fa. Sono andata due volte dal chirurgo plastico. Per addolcire il viso. Sul seno no, ho qualche resistenza. Non voglio essere notata. E poi ho sempre pensato: che impaccio, averlo». Sorride: «Sì, forse questo è un ragionamento da uomo».
Stefania Castelli è una trans di 40 anni. Manager. Nata a Venezia, vive a Padova. Papà avvocato, mamma femminista. Sinistra impegnata. Incomprensione lo stesso, però, al momento della rivelazione. Era un ragazzo quando scappò a Bologna la prima volta. Più osterie e jazz che esami all’università. Quando ci tornò era un uomo adulto che voleva diventare donna. Alta, occhi chiari, profilo alla Virginia Woolf. Indossa jeans morbidi, scarpe senza tacco dal taglio maschile, maglioncino di un’eleganza vezzosa, trucco leggero. Mentre sul palco di Santa Lucia si alternano i relatori, dà gli ultimi ritocchi sul portatile «a un progetto europeo sul genere di qualità».
Se le dicono che è una bella donna…?
«Magari! Si fa una fatica! Bisognerebbe cominciare a sedici anni».
Troppo presto, forse, per avere le idee chiare.
«Per la scelta sì. Per fare psicoterapia, no. A questo servono gli scienziati come Benjamin. Per divulgare un metodo scientifico. Un protocollo. C’è ancora di tutto, in giro. Dagli stregoni alla chirurgia sperimentale».
La sua è una famiglia borghese di sinistra. Come l’ha presa?
Scherza: «All’inizio te pregano in ginocchio di fare il gay. Ci ho provato. A 17 anni ho avuto un ragazzo. Non funzionava. Gli omosessuali sono maschi. Oggi i miei hanno capito. Credo. La mamma se mi vede uscire con il rossetto mi sgrida: ma cosa fai, non va più di moda».
Lei è felice?
«Mi sento serena».
Ha un fidanzato?
Arrosisce.«No, purtroppo. Questo è un problema che devo risolvere. Sono bloccata. Ho tutte le paure di una donna ma so anche come ragiona un uomo. Certi uomini. Sono terrorizzata. Mi dico: e se incontro uno così? Allora mi butto sul lavoro».
Cosa pensano di lei quelli che frequentava prima?
«Qualcuno l’ho perso di vista. L’ultima fidanzata è diventata la mia migliore amica. Una volta mi ha accompagnato lei dal chirurgo plastico. Ora sta per sposarsi. Questo mi dà il senso del tempo che passa. Mi dico: accidenti, devo decidermi anch’io».
Non pensa che la sua resistenza all’operazione possa essere psicologica?
«No, quella parte è già risolta. Ho fatto quindici anni di psicoterapia».
Si veste sempre così, con i pantaloni?
Sorride. «Un anno fa ho comprato una gonna. Forse era troppo presto. L’ho provata in casa, non l’ho mai indossata fuori. E’ un segnale. Io non sono pronta»
Ogni mese due operazioni
BOLOGNA — C’è un uomo che si è operato, è diventato donna ma oggi ci ha ripensato. E vorrebbe tornare indietro. E’ l’unico caso, confessa Marcella Di Folco, presidente del Mit, il movimento italiano transessuali.
Presidente dall’inizio, cioé dal 1988. Più tardi, undici anni fa, il Mit ha aperto un consultorio in via Polese. Frequentato da 370 persone, oggi. Il responsabile scientifico è una psicologa. Affiancata da altre tre colleghe e da una endocrinologa. Che il ‘disturbo di genere’ sia in aumento ovunque è testimoniato dall’attività di questo centro non così piccolo, alla fine. «Da almeno tre anni — spiega la Di Folco — riceviamo tre-quattro richieste a settimana. Sono persone che ci chiedono di seguirle. Sono troppe. Noi non sappiamo più come fare. Anche perché il rapporto dura una vita. Alla fine non si interrompe mai. C’è sempre bisogno di fare qualche controllo. Di tornare a un colloquio, a una visita…».
Il percorso che inizia nel consultorio del Mit finisce all’ospedale Sant’Orsola. «Ogni mese — ricorda la Di Folco — si fanno due operazioni». Una per genere: da uomo a donna e il contrario. L’intervento è coperto dal servizio sanitario nazionale. Mentre si devono invece pagare le cure ormonali. Spiega la presidente del Mit: «Le persone transessuali devono affrontare un percorso psicologico e chirurgico che è consolidato in tutto il mondo. Ma non è riconosciuto ufficialmente come terapia per il disturbo dell’identità di genere». Tra parentesi: l’essere transessuali è contemplato nel manuale americano delle malattie mentali. Ultima edizione datata al 2002.
CONVEGNO – Mariela Castro, psicologa: «A Cuba non li discriminano»
In platea tra medici e psicologi sbuca anche la nipote di Fidel
BOLOGNA — Se chiedi al professor Walter Meyer, psichiatra texano, quanti siano i trans — o le trans — nel mondo, lui porta le stime degli scienziati. Da qui risulta che «ogni undicimila abitanti c’è un uomo che vorrebbe essere donna — sostiene il presidente della ‘Harry Benjamin’, associazione scientifica internazionale sulla disforia di genere —. Più raro il contrario: solo una donna su trentamila si sentirebbe uomo». Sul palco di Santa Lucia, tempio della cultura universitaria, il genere ‘trans’ spazia dal Giappone alla Polinesia. Passando per l’Inghilterra e Cuba: ecco Mariela Castro Espin, la nipote di Fidel. Psicologa, è qui per presentare una ricerca del suo centro nazionale di educazione sessuale.
Per il 19esimo congresso dell’‘Harry Benjamin’ sono arrivati 190 delegati da tutto il mondo. Chirurghi, psicologi, endocrinologi, rappresentanti delle associazioni che si battono per i diritti civili. Naturalmente c’è il Mit di Marcella Di Folco. Il Movimento italiano transessuali, con l’Università di Bologna, ha contribuito a organizzare il convegno. Si tenta un dialogo. Anche con la religione. Stavolta più sottovoce, magari. Poche telecamere e pochi fotografi. Perché sono giorni speciali, questi. Gli occhi del mondo puntati su Roma.
Meyer insiste: «Stiamo parlando di un problema medico. Non di un peccato». L’Italia, conclude, sta in mezzo, tra i paesi che accettano i trans e quelli che li mettono ai margini. In questi giorni di congresso si cercherà anche di «stabilire standard di cura sul trattamento». Chiarisce Paolo Valerio, che insegna psicologia clinica all’Università Federico II di Napoli: «Tanti vorrebbero essere operati subito. Invece si è visto che è necessaria una preparazione psicologica, prima». Che può essere anche molto lunga. Intanto gli scienziati registrano che «l’area del disagio di genere è in aumento in tutto il mondo occidentale e anche nei paesi asiatici — spiega Valerio — . In Giappone, l’ha appena detto un collega, da poco sono consentite le operazioni di cambio sesso».
Un intervento fa luce sui femminielli. Confronto tra Messico e Napoli. Mariela Castro suscita curiosità anche per la parentela. Ma si schermisce: «Lui per me resta Fidel». Ma sono liberi di scegliere, i transessuali a Cuba? Giura di sì. Spiega: «Possono cambiare nome anche sul documento. Anche prima dell’operazione».