Matrimonio e convivenza: vediamoci chiaro

  

“Ma di matrimonio ce n’è uno solo”: questa rivendicazione occupa la copertina del supplemento domenicale nazionale di “Avvenire” del 30 ottobre. La tesi viene sviluppata nell’editoriale di Marina Corradi “Piccoli matrimoni per legami precari”, riassumibile nell’enunciazione «Il riconoscimento delle coppie di fatto cozza contro “l’aspirazione al per sempre”, che è l’inclinazione più autentica dell’amore umano».

In realtà, anche le enunciazioni di Marina Corradi, e di quanti la pensano come lei, cozzano contro qualcosa di importante, e cioè contro una corretta conoscenza di fatti e situazioni. Quella conoscenza buona e mite che non scambia la fede cristiana, che è un grande “annuncio di novità”, con i dati storici e sociologici, molto più fragili e modesti di quel “cuore nuovo” che è creazione della fede, la quale ci fa capaci di elaborazioni di continuo rinnovate, e non è un mero dato identitario, da esibire verbalmente e polemicamente.

In Italia, per fare un esempio concreto, trascuratissimo dalla Corradi, che pare preferire la polemica alla conoscenza, nel nostro diritto pubblico, almeno dal 1970, non c’è affatto un solo modello di matrimonio, ma ce ne sono due, entrambi riconosciuti costituzionalmente legittimi, benchè legati a visioni assai diverse: quello celebrato in chiesa e quello celebrato in comune. Entrambi, per il concordato inserito nella Costituzione all’articolo 7 e tuttora vigente, creano “effetti civili” (chi si sposa in chiesa non deve ripetere le nozze in comune, la loro registrazione nello stato civile è automatica…).

Una differenza era indicata già, anche prima del ’70, nel fatto che il contrario non era vero: chi si sposa in Comune non è registrato in chiesa: è ovvio, ma significa qualcosa. Con il divorzio, poi, che dal 1970 è legge della Repubblica, gli effetti civili di un matrimonio anche religioso possono essere sciolti, e spesso lo vengono di fatto, quando uno dei due coniugi, si allontana dal “per sempre, pur pronunciato in chiesa, e dice “basta!”. La Chiesa, giustamente, rivendica la propria sovranità nella valutazione degli effetti religiosi di un divorzio civile ottenuto. Questo le pone non pochi problemi pastorali, ma è una presa d’atto che di matrimoni, in realtà, checchè scriva la Corradi, ce ne sono due, quello che si contrae come indissolubile e quello che poi si scioglie saltando sul modello civile, che pure non si era usato nel rito iniziale. E se, come l’articolo 8 della Costituzione prevede, altre confessioni religiose pattuissero intese con lo stato italiano che comprendessero norme rilevanti in materia matrimoniale, allora di modelli di matrimonio, nella nostra società, ce ne potrebbero essere altri.

Anche se, come già avviene ai cattolici, gli effetti civili di ogni matrimonio religioso (valdese, ebraico, musulmano, ortodosso, ecc.) cadrebbero nell’ambito della legge pubblica, e non della norma religiosa, sovrana anch’essa, ma solo in casa propria. Appiattirsi tanto sulla famiglia “naturale e costituzionale”, come oggi si fa da molti cristiani, a me sembra pensiero insufficiente, e sostanzialmente diseducativo.

Del pari, non sono sicuro che la Corradi dica bene quando afferma che ogni “patto civile” che venisse ad accrescere i diritti soggettivi di soggetti umani uniti in convivenze o “unioni di fatto”, sarebbe un “educare ad accontentarsi”, a volere per sè “un patto che si può sciogliere da un giorno all’altro semplicemente dicendo ora basta”. Questa possibilità è già in atto, col matrimonio civile che statisticamente si avvicina a pareggiare quello celebrato in chiesa, e anche più evidentemente con gli italiani che preferiscono le convivenze di fatto. Sono una minoranza, ma non piccola (questo la Corradi lo riconosce, ma non si interroga su quali fattori l’abbiano prodotta, anche in assenza di Pacs).

Questa propensione è un dato culturale ed etico, discutibile, ma non spregevole, in quanto dice la volontà di mantenere la “relazione” fuori da ogni ritualità, religiosa o civile, per un sentimento, parziale se si vuole, ma reale e con motivazioni sue: un sentimento che fa concepire la “relazione” (la “storia”, come anche si dice), come più forte e significativa di riti intesi a riconoscerla e benedirla con un proprio linguaggio. I meri “unionisti” sentono ogni rito non come un “di più” che aiuta la coppia, ma come un “di meno” di quanto già esiste tra i due; concepiscono la “formalità” matrimoniale come una estraneità e non come una intimità reciproca.

Io non condivido il loro punto di vista, ma so ascoltare chi per sè preferisce una “unione di fatto”, e a priori non giudico questi concittadini più leggeri di quanti convivano in altro modo. Mi sento più lontano da chi teorizza la superiorità dei “single”. Vedo poi che, proprio dall’arrivo di figli, amatissimi dai genitori, la coppia convivente spesso si traforma in coniugi civili, e qualche volta anche in sposi cristiani. Non tanto per convenienze pratiche, legali e sociali (che pure ci sono), ma per comunicare un “simbolo” chiaro ai nuovi amatissimi arrivati.

Le cose sono dunque complesse e delicate, ma non tutte così brutte e spente come Marina Corradi, e, ahinoi, tanti altri con lei sembrano o vogliono vedere.


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