Quando apparve, nei primi anni Ottanta, si presentò subito come il morbo del pregiudizio antigay, la grande occasione per i reazionari di ogni risma di rilanciare la campagna contro gli omosessuali e contro ogni forma di libertà sessuale.
La comunità gay, prima quella americana, poi quella internazionale, fu costretta a mobilitarsi per respingere il doppio attacco: quello del virus, che si intrufolava nella comunità mietendo vittime e costringendo a rapidi mutamenti di abitudini, e quello, non meno insidioso, del pregiudizio che legava la diffusione dell’Hiv ad una condanna divina contro i gay o, comunque, ad una condanna morale dell’identità omosessuale. Dopo secoli di invisibilità sociale i gay, proprio quando venivano alla luce come realtà organizzata nella richiesta del riconoscimento dei loro diritti, vennero sbattuti in prima pagina come malati ed untori.
Nel fragore dei media e nell’assenza delle istituzioni, anche nel nostro paese i gruppi gay si rimboccarono le maniche e costruirono una loro cultura sull’Aids fatta di informazioni per il sesso più sicuro, di esperienze di sostegno ai malati e di auto aiuto per le persone sieropositive, di individuazione dei più efficaci messaggi di prevenzione. Un’epopea drammatica, perché lasciò sul campo molti di noi, fra cui alcuni dei protagonisti delle prime battaglie del movimento gay italiano, ma anche una prova del fuoco per una comunità oggetto di ulteriori discriminazioni e, ancor più per questo, soggetto della costruzione di una propria identità fiera e battagliera.
La disponibilità del test e il suo anonimato, la rottura del tabù sul preservativo, la tutela dei diritti delle persone sieropositive sono battaglie che hanno impegnato direttamente più generazioni di gay italiani e che ad oggi non sono vinte.
Quel 1987 in cui un Ministro della Sanità pronunciava le infelici parole “l’AIDS lo prende chi se lo va a cercare” è lontano nel tempo, ma non nella cultura del Paese se solo pochi anni fa un altro Ministro della Salute spiegava, in un opuscolo destinato alle scuole, che «’unico modo per proteggersi davvero» dal virus Hiv «è non avere rapporti sessuali». Così si subordinava la salute delle nostre ragazze e dei nostri ragazzi ad una propaganda moralista e astratta dalla realtà.
L’antico slogan, “un virus non ha morale”, con cui i gay italiani reagirono alla campagna di denigrazione nei loro confronti, mantiene ancora tutta la sua attualità e necessità.
Una recente ricerca condotta da Arcigay con fondi dell’Istituto Superiore di Sanità e con la collaborazione di ArciLesbica e di moltissime organizzazioni gay e lesbiche italiane ci dice che due gay su tre hanno fatto il test dell’Hiv, ma che uno su tre trova difficile reperire informazioni chiare sui rapporti sessuali a rischio di contagio. D’altra parte, i medici di base spesso non concepiscono nemmeno che una parte dei loro pazienti sia omosessuale. Così la percentuale di infezione per via omosessuale ha ricominciato a salire, anche se ad un ritmo inferiore dei contagi per via eterosessuale. In definitiva, c’è il rischio di un calo dell’attenzione e la necessità di cambiare il passo di marcia.
Condividiamo lo spirito dei quattro cardini del programma del Ministero della Salute per la lotta all’Aids: la presa in carico di chi ha contratto l’infezione; l’integrazione socio-sanitaria accanto alla terapia; il rilancio della ricerca scientifica; la fine dell’ipocrisia sui messaggi di prevenzione e la promozione dell’uso corretto del preservativo. All’interno di questo programma chiediamo però di dare risposte adeguate ad alcune questioni ancora aperte.
Si riattivino le campagne di informazione e prevenzione mirate su target specifici. Abbiamo lottato con fatica, forti dei dati scientifici, contro quella falsa e dannosa impostazione che vedeva negli omosessuali e nei tossicodipendenti due comode “categorie a rischio” la cui individuazione aveva prodotto un falsa tranquillità nel resto della popolazione confortandola a proseguire in pratiche non sicure. Siamo riusciti a far sì che si focalizzasse l’attenzione sui “comportamenti a rischio”, perché il virus non ha morale e non colpisce questa o quell’identità.
Così abbiamo contribuito a promuovere una sessualità più consapevole e attenta a contrastare un uso politico dell’Hiv contro i diritti e l’inclusione sociale delle persone omosessuali.
Avere smesso di utilizzare in maniera impropria, discriminatoria e colpevolizzante la formula di “categoria a rischio” sostituendola con quella responsabilizzante ed efficace di “comportamento a rischio”, però, non può e non deve comportare, com’è avvenuto negli ultimi cinque anni, l’abbandono di quelle campagne mirate che hanno permesso in questi anni di raggiungere milioni di persone con messaggi di prevenzione adeguati ed efficaci in linea con gli standard occidentali.
Si integrino le campagne generaliste con campagne mirate, franche e attente alle sensibilità specifiche della comunità omosessuale come alle sue differenze interne: generazionali, etniche, sociali, di genere, di stile di vita, di condizione sierologica.
Chiediamo che venga incentivato l’uso del preservativo, attraverso distribuzioni gratuite, calmierando i prezzi di mercato, rendendolo facilmente disponibile in luoghi vicini come le scuole, o difficili, come gli istituti di reclusione. Facciamo nostre le parole Ministro francese della Sanità, Xavier Bertrand che ha ricordato in questi giorni la necessità di "far trovare il preservativo in più luoghi possibili in modo che il suo uso diventi un riflesso automatico".
Va promosso con più forza l’accesso al test diagnostico dell’Hiv e la comunicazione su un corretto uso del test dato che è molto elevata, specie tra i più giovani, la quota di persone ignare del proprio stato sierologico.
Riteniamo necessaria una verifica della qualità e dell’equità del trattamento sociosanitario e farmacologico offerto dal Servizio Sanitario Nazionale alle persone sieropositive ed alle persone omo-bisessuali nelle diverse realtà regionali, all’interno di una più generale azione di promozione del benessere delle persone lesbiche, gay, bisessuali e transgender.
Facciamo in modo che parta davvero una nuova fase di contrasto all’Aids, riflettendo su antichi errori, riannodando fili interrotti e facendo tesoro di quella molteplicità di esperienze individuali e collettive che negli scorsi anni hanno contribuito in modo essenziale a contrastare le incrostazioni ideologiche che rendevano più difficile la lotta all’Hiv e a fare di una battaglia medica una battaglia umana, sociale e culturale per la promozione della salute ma anche per la promozione della dignità di ogni donna e di ogni uomo, indipendentemente dalla sua condizione sierologica, indipendentemente dal suo orientamento sessuale e dalla sua identità di genere.