Tra sesso e “generi intermedi”

  

L’identità di genere non è un vestito che si sceglie ogni mattina, come sembra pensare Marcello Pera (su La Stampa di domenica) e con lui molti teodem e teocom. È molto più una costruzione/costrizione sociale che ci si trova addosso, specie le donne, per il solo fatto di avere organi sessuali femminili piuttosto che maschili, che non l’esito della scelta di un modo di essere e porsi.

Il concetto di genere, infatti, si riferisce non all’orientamento sessuale, quindi alla etero piuttosto che omosessualità. Si riferisce piuttosto al modo in cui in una società ed epoca data viene definito ciò che è maschile e ciò che è femminile, chi e come sono gli uomini e le donne «normali», adeguati, e quali sono le loro competenze – intellettuali, affettive, pratiche – per il solo fatto di essere appunto uomini piuttosto che donne.

«Donne (e uomini) si diventa», scriveva Simone de Beauvoir negli Anni 40, intendendo che maschi e femmine vengono dalla nascita inseriti in percorsi di apprendimento e formazione più o meno differenziati, che li plasmano come uomini e donne socialmente riconoscibili come tali.

Come aveva segnalato già l’antropologa Margaret Mead è un’operazione che dà esiti molto differenziati e talvolta opposti da una società all’altra. Un’operazione che ha sempre a che fare con rapporti di potere: tra uomini e donne, ma anche tra uomini e tra donne. Come ha documentato tra gli altri lo storico inglese Tosh, in ogni epoca e società ci sono modelli di mascolinità (e femminilità) egemoni e altri subalterni, considerati meno adeguati, meno normali: perché socialmente subalterni (ad esempio i neri, ma anche gli italiani per lungo tempo negli Stati Uniti), o perché il mestiere che facevano o la vita che conducevano non corrispondeva al modello di genere prevalente (è capitato anche agli intellettuali di non essere considerati «uomini veri»).

L’identità di genere di volta in volta sedimentata nelle pratiche sociali e nel senso comune è stata e in molti luoghi ancora è una potente arma di dominio ed esclusione, soprattutto verso le donne, ma non solo. La democratizzazione delle società si è anche accompagnata, non senza conflitti, a uno scongelamento d’identità di genere rigide ed escludenti.

Non si può, quindi, confondere orientamento sessuale con identità di genere, come fa Pera, allorché definisce il primo come esito di scelte culturali e di stile di vita e prospetta il rischio che riconoscere diritti agli omosessuali apra la via a un «terzo genere» o a «generi intermedi». Modelli di genere diversi già esistono a prescindere dall’orientamento sessuale. L’omosessualità non è più culturale o meno naturale dell’eterosessualità. Gli omosessuali maschi e femmine non si sentono meno uomini e donne degli eterosessuali del loro stesso sesso. Tra gli eterosessuali ci sono modi diversi di presentarsi e vivere come uomini e donne. Lo stesso vale per gli omosessuali di sesso maschile e femminile.

L’idea dell’omosessualità come inversione e terzo sesso fa parte dello stesso armamentario culturale per cui i maschi sono aggressivi, audaci, non piangono mai e le femmine sono dolci, passive, accudenti, un po’ sceme. Diversa è la situazione dei transessuali, che sperimentano una frattura tra il corpo e ciò che sentono d’essere: donne in corpi maschili, uomini in corpi femminili. Un’esperienza spesso dolorosa e che va trattata con rispetto e delicatezza e non liquidata con battute pseudo-spiritose.

La norma che vieta la discriminazione sulla base dell’identità di genere contenuta nel Trattato di Amsterdam riguarda innanzitutto loro, cui la legge italiana consente il cambiamento di sesso, ma solo questo: ignorando i lunghi stadi intermedi e anche la situazione di coloro che non vogliono arrivare fino alla mutilazione del corpo. La superficialità di molte argomentazioni contro il diritto degli omosessuali e transessuali al riconoscimento della dignità della propria vita è sorprendente. Fa nascere persino il sospetto che nascondano un’insicurezza di fondo circa la tenuta dell’eterosessualità chiara e distinta nel caso si allargassero i confini del riconoscimento di ciò che è legittimo. Il che sarebbe paradossale per chi ha così salde certezze circa l’incontrovertibilità della natura.


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