Luca era… un gran mal di testa

  

La storia del famigerato Luca è ormai ben nota (o quasi) a molti italiani. Tutto è scaturito da una canzoncina dai pretesi sound moderni, con coretto aggiuntivo di ragazzina scalmanata sotto incerti influssi di non si sa bene cosa. Molti di noi sono rimasti incollati allo schermo, dopo le lacrime versate sull’Oscar Wilde recitato da Benigni, per visionare lo scempio. I talk-show hanno fatto il resto, producendo chicche come i commenti da degna mamma italiana della Mussolini (“avere un figlio gay è una tragedia”) o i monologhi da onorabile campagnolo di un Al Bano che ormai soffre di vibrato tenorile tipico dei sessantenni. Striscia la Notizia ha poi aggiunto nuovi dati alla storia già più o meno conosciuta, con dettagli certamente sconcertanti. Non c’è bisogno di esplorare di nuovo il tutto, già l’abbiamo fatto per settimane. Il punto della questione è un altro. Il caro Aurelio Mancuso mi chiede: non sarà che questo Luca costituisca, oltre ad una canzoncina di basso livello, anche un problema più intimo, più interno, causa di piccole, dolorose guerre intestine?

Come dargli torto? L’affaire “Povia” non si riduceva esclusivamente ad un chiaro fatto di voluta diseducazione del pubblico italiano medio (con messaggi diretti ad un ritratto oscuro, perverso, morboso e malaticcio del collettivo omosessuale, checché si appelli ad un fattore di “unicità” della storia raccontata, non cercata dagli autori come paradigma del gay – dando così solo un’immagine di falsa ingenuità da cantautore spicciolo, accessoriato da arroganti cartelli di pretesa semplicità). La bomba innescata da Povia ha dato purtroppo adito, e qui arrivo al nocciolo del personale, a piccole, dolorose battaglie tra conoscenti, amici, parenti, famigliari, vicini di casa, che nel discutere dei contenuti hanno tirato fuori il meglio (od il peggio) di sé. Certo, direte, “molti di noi abbiamo semplicemente ignorato”. “Siamo superiori a tutta questa scemenza.” Non c’è che dire, v’invidio. Perché io, nel mio piccolo, non riesco a non commentare, a non pensare, a non riflettere, a non arrabbiarmi. Quando l’argomento mi tocca, c’è poco da fare. E con tutto il mio fervore cerco di contribuire a far sì che il messaggio negativo non arrivi, cerco di dare un senso agli anni di sofferenza, di closet, di ricerca dell’auto-accettazione. Cerco di sciacquare questi nuovi spruzzi di sale sulle vecchie ferite del passato.

E fa più male quando il tuo interlocutore, la persona dalla quale attendi un responso concorde al tuo pensiero, è tua madre. Fa male sentirsi dire che tutto questo fervore è visto, in realtà, come lo stolto sfogo di un “esagitato”. Sì, perché purtroppo è pensiero comune che i gay si diano troppo da fare per difendersi, per mettere a tacere le cattiverie. “Non se ne può più di vedervi mezzi nudi nei carri dei Pride, ma cosa volete? Qualcuno vi proibisce di fare la vostra vita? Qualcuno proibisce a te di fare la tua vita? E allora che te ne frega di una canzoncina?”. Purtroppo non è così, (cara) mamma. Tu, che mi dici di capire al massimo un gay stilista, artista, un Yves Saint-Laurent. Tu, che ignori i gay benzinai, medici, maestri di scuola, salumieri e quant’altro. Questi gay del “piccolo mondo” non rientrano nella tua immaginazione quanto l’eccentrico stilista checca, l’unico da te comprensibile. Questi “busoni” anonimi ti disgustano. Ti sanno di perverso, di sporco, di misterioso, di sconosciuto.

Ecco che, quindi, la mia naturale reazione è di sdegno, di rabbia, di stupore. Come può essere che, con tutti gli elementi sotto il naso, tu non capisca, non veda il mio dispetto nei riguardi di un’ingiustizia che è tale sotto tutti i punti di vista: musico-testuali, semiotici, comunicativi, umani. E che, anzi, il mio ardore, la mia passione nel difendere me e con me altri milioni di persone sia vista da te come la reazione di un pignolo “esagitato”. Non sono valsi fiumi di parole (e non certo quelli dei Jalisse). Il risultato è stato rabbia, contrasto, tristezza, depressione, incomprensione. Perché tua madre non è una donna qualsiasi. Da lei aspetti ed aspetterai sempre un cenno di approvazione, tu, figlio, che hai deluso le speranze della procreazione (cattolica). Cenno che alcuni ottengono. Io, invece, nella mia illusione, a periodi alterni, propongo temi di discussione, argomento, presento, dibatto. Il blocco, il muro è sempre lì, duro di un’italianità paragonabile forse solo a quella del marmo, anch’esso italiano.

Piccole scene di vita famigliare. Piccoli tasselli della battaglia che un figlio intraprende per aprire gli occhi ad un genitore, per sentirsi dire “è vero, queste sono cattiverie, hai ragione, ti voglio bene anche perché sei così, perché sei nato così”. Parole liberatorie che non arrivano, mai. Attese che ti fanno scappare da casa, con le valigie piene di sospiri. Delusioni che ti fanno sentire rifiutato da chi ti ha messo al mondo. E, come se non bastasse, sentirsi dire che, con queste agitate pretese di comprensione, non fai altro che aggiungere dispiacere su dispiacere, perché ad una certa età “non si ha più voglia di combattere, di stare male”, infine, di sentire un ventenne difendere con foga la sua dignità, il suo non essere un altro possibile Luca.

E senti un vento di stanchezza che vorresti non arrivasse mai se un giorno raggiungessi i cinquanta e rotti. Tanto dolore, tanta disillusione di un genitore, e i dardi della colpa che ti trafiggono. Luca era gay ha versato un’ennesima piccola goccia nel mare del pensiero di corrente omofoba. Anche se questo sia negato da tanti, anche da tua madre, che intanto invoca un “Arci-etero”, perché, dopotutto, si sente insultata ed offesa dai “gay”, in qualità di antiquata, arretrata, “colpevole di essere etero”… Tuttavia quest’oceano che noi cerchiamo di disseccare è sempre umido, umidissimo di stagnante pregiudizio. Eserciti di uomini e donne che non sono pronti ad aprire le braccia a persone che, secondo loro, sono una minaccia. Persone che vanno guarite, povere vittime di padri alcolizzati e pedofili discotecari.

Melodramma? Non necessariamente. Per fortuna ci sono casi di bel dialogo. Ma tutto può far male, anche canzoncine quotate alla SIAE. Per storie personali ed individuali che siano. Peccato, perché per questo Luca molti hanno avuto un gran mal di… testa. Io, dal mio canto, parlo ancora “con il cuore in mano”. E sono ancora, sempre, purtroppo per alcuni, “lo stesso uomo”. Sperando di non diventare mai “un altro uomo”. Grazie di avermelo ricordato, (caro) Povia.

Flavio FB


  •