Stéphanie, bella, arroganza fragile, è un transessuale. Gli uomini la desiderano e lei sa come sedurli. Djamel è maghrebino, cresciuto nelle periferie parigine per vivere si prostituisce. Mikhail ha un passato oscuro di guerre, il suo paese è la Cecenia, la Francia è lavoro «clandestino» e niente documenti.
Wild Side
I tre si incrociano, si attraggono, si calpestano, si amano in una strana progressione di complicità e passione che da Parigi fredda e aspra li porta in campagna, nella casa di infanzia di Stéphanie, vicino alla mamma di lei che sta morendo e al fantasma di un padre (ossessione del regista) mai conosciuto.
Wild Side lo dirige Sébastien Lifshitz, sessantottino di nascita, cresciuto studiando Warhol, Edward Ruscha, Richard Artschwager, arrivato presto (nel 1993) al cinema, dopo una parentesi «fotografica» come assistente di Suzanne Lafont, con il corto Il faut que je l’aime. E subito enfant prodige delle nuove generazioni francesi, che si muovono in quella zona di un cinema personale, indipendente, non necessariamente «autoriale» ma di decisa intensità. Maestra dichiarata è Claire Denis, lui gira un suo ritratto, Claire Denis la vagabonde, poi lavora sul set di Nenette e Boni. Nel frattempo arrivano Les corps ouverts, mediometraggio premiatissimo, Presque rien, il primo lungometraggio e La traversée, on the road americano con geografia tracciata da emozionalità, il segreto intimo di un padre mai visto (come in Wild Side) cercato nel paesaggio di un’America sognata, caleidoscopio di visioni amate, rubate all’immaginario ora invece fisiche, prima dei narcisismi autobiografici di J.T Leroy.
Wild Side all’ultima Berlinale (era nel Panorama) ha vinto il Teddy Bear, il premio che viene dato al migliore film gay del festival, ma l’«etichetta» e di qualsiasi genere non funziona sulla materia che lo compone. In fondo a raccontarla così anche la storia può sembrare banale. Eppure. Non è questione di sessualità, o dell’attrazione sempre attuale per le relazioni a tre, come in un moderno Jules e Jim, o ancora di una pacificazione, i personaggi che arrivano all’equilibrio col mondo nonostante la durezza dei reciproci vissuti attraverso questo loro incontro che diventa anche invenzione di un’altra dimensione familiare.
Il fascino – e la forza – di Wild Side sta proprio qui, nella capacità cioè di entrare dentro agli archetipi (o persino agli stereotipi) e trasformarli in personaggi unici, singolari, inafferabili. A cominciare dal titolo che, ci dice il regista, rimanda ovviamente a Lou Reed, al suo Walk on the Wild Side, universi scuri, estremisti, fuori schema. Che potrebbero essere anche quelli del David Bowie glam rock, altra passione di Lifschitz, che nel suo cinema ama usare citazioni e riferimenti per rovesciarle, appropriarsene, cambiarne il segno, cosa che in Wild Side (le musiche sono di Jocelyn Pook, Eyes Wide Shut di Kubrick e L’emploi du temp di Cantet… ) arriva al massimo di fluidità. È il gioco del travestimento, non solo identità sessuale ma invenzione di sé e di un mondo «a parte» che mettono in scena le vite dei tre personaggi. Scelta che è rivendicazione di libertà ambugua, difficile, vissuta nei corpi sovraesposti.
Che è un cinema molto fisico quello di Lifshitz, e Wild Side sarebbe difficile da immaginarsi senza i suoi attori, Stéphanie Michelini intanto, poi Edouard Mikitine (Mikhail) e Yasmine Belmadi (Djamel), come senza la luce a temperatura mobile catturata da Agnès Godard (direttore della fotografia per Claire Denis ma anche per Techiné o Noémie Lvovsky). Locali notturni, Parigi tra stazioni, stanze d’albergo, periferie, scorci anonimi, poi la casa grande senza nostalgie proustiane, i vestiti shock di Stéphanie, la vertigine della madre, tenue come una fotografia d’altri tempi, lontana come la mamma di Mikhail, che attende una telefonata in uno spazio senza identità o come quella di Djamel, che il figlio non vede più, ormai lontano dalla famiglia che lo ha rifiutato.
Wild Side è una storia d’amore scritta su questi corpi e nello stridore con le loro realtà, nelle paure e negli attimi di dolcezza. Il desiderio di un cinema selvaggio fatto di rischio, piaceri, invenzione.