La bufala della convivenza “more uxorio”

  

Ha destato scalpore una notizia diffusa mercoledì 22 giugno dall’ANSA e ripresa dal Messaggero, secondo la quale due uomini conviventi a Roma si recheranno tra qualche giorno presso il Tribunale per “ratificare” la propria convivenza, sulla base di una legge che risalirebbe ai tempi del fascio.

Nella notizia diffusa vi sono grossolane inesattezze, che meritano delle correzioni.

La questione, avente a riguardo una convivenza, va inquadrata partendo dalla legge n. 1228/54 che disciplina l’anagrafe, accompagnata dall’ultimo regolamento di esecuzione approvato con D.P.R. n. 223/89 (che ha sostituito il precedente regolamento D.P.R. 31 gennaio 1958, n. 136) e successive modificazioni.

L’articolo 1 della legge stabilisce che «in ogni comune deve essere tenuta l’anagrafe della popolazione residente», presso cui registrare tre posizioni: le singole persone, le famiglie e le convivenze, ma non definisce queste nozioni. Le definizioni sono invece contenute nell’articolo 4 del regolamento di esecuzione, secondo cui la famiglia anagrafica è l’«insieme di persone legate da vincoli di matrimonio, parentela, affinità, adozioni, tutela o da vincoli affettivi, coabitanti ed aventi dimora abituale nello stesso comune», precisando che tale è anche quella costituita da una sola persona; mentre la convivenza è «un insieme di persone normalmente coabitanti per motivi religiosi, di cura, di assistenza, militari, di pena, e simili, aventi dimora abituale nello stesso comune».

La dottrina afferma che la famiglia anagrafica definisce una res facti (Lucarelli, “Sulla definizione ed evoluzione della famiglia anagrafica”, in Stato civ. it.,1994, pag. 675), cioè essa esiste se ricorrono tre requisiti: l’esistenza di un vincolo, anche se solo affettivo, la coabitazione e la residenza nello stesso comune. Invece la famiglia legittima esiste indipendentemente da una situazione di fatto essendo necessario e sufficiente l’esistenza del vincolo giuridicamente definito (Puleo, “famiglia. II. Disciplina privatistica”, in generale, voce dell’Enciclopedia giuridica Treccani, 1989, XIV, pag. 3). Anche la convivenza è una res facti, nella quale è irrilevante l’esistenza di un vincolo.

Quanto premesso chiarisce che la famiglia anagrafica e la convivenza rilevano soltanto per gli effetti anagrafici; tuttavia alcune volte il legislatore fa dipendere l’esistenza di un diritto o la concessione di un beneficio dall’esistenza di una famiglia anagrafica o di una convivenza. Solo per fare alcuni esempi essa rileva riguardo alla disciplina dei permessi ai detenuti (art. 30, comma 1, lg. n. 354/75) oppure nell’ambito della normativa antimafia (art. 14, comma 2, lg. n. 646/82) o, ancora, per la possibilità del convivente di non fare deposizioni in giudizio (art. 199 c.p.p.). Essa rileva anche nei casi di novelli coniugi che vogliano adottare e devono dimostrare che la loro convivenza esisteva già prima del matrimonio, oppure per i dipendenti pubblici conviventi con persone portatrici di handicap, che intendano ottenere il trasferimento per avvicinarsi al luogo di residenza (D.M. n. 382/95), etc.

In questi casi concreti in cui la situazione di fatto acquista rilevanza giuridica è fondamentale poter dare la prova dell’esistenza e, soprattutto, della durata della famiglia anagrafica e della convivenza. Questa prova non sarebbe possibile darla in tutti i casi in cui non si fosse provveduto a fare le dovute comunicazioni all’anagrafe (o nei casi, per esempio, in cui la convivenza si è svolta all’estero). Per ovviare a queste situazioni di prova ‘mancante’ esiste la possibilità di ricorrere al’atto notorio che certifica un fatto avente rilevanza giuridica, nei casi in cui non vi sia contestazione di parte.

È sufficiente che un fatto o uno stato, o una qualità personale (in pratica tutti quelli non ricompresi nell’elenco del’art. 46 D.P.R. 28.12.2000 n. 445, per i quali, invece, è sufficiente l’autocertifcazione), siano conosciuti da almeno due persone maggiorenni estranee al’atto e in possesso dei diritti civili perché tale conoscenza, rilasciata in forma di dichiarazione e raccolta dal’ufficiale rogante in un processo verbale, conferisca al fatto, atto o qualità personale in questione, valore probatori. L’atto notorio viene rilasciato dal notaio o dal cancelliere dell’ufficio omonimo presso il Tribunale, ai quali viene resa la dichiarazione. La presenza del notaio e del cancelliere, vale la pena sottolinearlo, ha solo la funzione di certificare che quanto riportato nell’atto è stato dichiarato in loro presenza da persone di cui hanno accertato l’identità. La veridicità della dichiarazione, invece, è resa sotto la propria responsabilità ai sensi dell’art. 26 legge 15/68.

Ricapitolando tutto quanto precede deriva che:

1) attraverso gli atti notori non si realizza alcuna “ratifica”, ma più semplicemente in essi viene riportata una dichiarazione resa sotto la propria responsabilità (ci si assume le conseguenze di natura penale per il caso in cui quanto dichiarato risulti falso) e confermata da due testimoni, di un fatto, uno stato o qualità personale;

2) l’atto notorio ha la rilevanza di una certificazione dalla quale non derivano direttamente diritti e benefici. Questi, al contrario, sono correlati direttamente al fatto, stato o qualità personale in esso dichiarati. Quindi, per fare un esempio, se la legge non prevede che da un determinato fatto derivi un diritto o un beneficio – o per dirla altrimenti: se il fatto non costituisce una situazione giuridicamente rilevante- l’atto notorio e la dichiarazione che contiene non avranno alcuna conseguenza.

Preme sottolineare che non è dato rilevare allo scrivente l’esistenza di alcuna norma risalente al 1937 o al periodo fascista, che riguardi la disciplina delle convivenze “more uxorio”. Ancora oggi le convivenza “more uxorio” o famiglie di fatto, non hanno nell’ordinamento italiano una forma positiva di riconoscimento e, quindi, diritti e doveri correlati.

A tal proposito assolutamente sconveniente e privo di pregio appare il confronto o l’assimilazione, da alcuni fatta, di questa situazione di fatto con la regolamentazione, attraverso apposita legge, delle unioni civili. Infatti nel primo caso non vi è alcuna rilevanza giuridica della situazione di fatto se non, e solo eventualmente, nei singoli casi in cui il legislatore ritiene di volta in volta di accordare benefici all’esistenza di tale situazione; nel secondo caso, al contrario, la legge provvederebbe a fornire una completa regolamentazione di diritti e doveri in capo ai componenti dell’unione. Quindi non ci troveremmo più di fronte ad una situazione di fatto, res facti, ma ad una situazione di diritto, che ha portata generale, assolutamente rilevante giuridicamente.

Per completezza, e solo a titolo esemplificativo, si indicano alcuni dei diritti, di natura patrimoniale e non patrimoniale, che la proposta di legge sul PACS (la Commissione giustizia della Camera dei Deputati sta continuando l’indagine conoscitiva sulle proposte di legge presentate) assicurerebbe.

Con il PaCS si può prendere al posto del partner una decisione di carattere sanitario, si può ottenere il permesso di soggiorno e la cittadinanza, si ha diritto ad essere parificato nei concorsi ad un soggetto coniugato e si può subentrare nel contratto di affitto, quando sia morto il convivente che solo aveva stipulato il contratto.

Tutto ciò con l’atto notorio non si otterrebbe mai.

Avv. Antonio Rotelli
Responsabile settore legale e legislativo Arcigay


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