Audizione dell’avvocato Marina Marino, presidente dell’Associazione nazionale avvocati matrimonialisti

  

CAMERA DEI DEPUTATI – XIV LEGISLATURA
Resoconto stenografico della II Commissione permanente (Giustizia)
Seduta del 22 giugno 2005

Indagine conoscitiva sulle tematiche riguardanti le unioni di fatto ed il patto civile di solidarietà.

Audizione del’avvocato Marina Marino, presidente del’Associazione nazionale avvocati matrimonialisti.

(Fonte: www.parlamento.it)

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE PIER PAOLO CENTO

La seduta comincia alle 9,10.

PRESIDENTE. ‘ordine del giorno reca, nel’ambito del’indagine conoscitiva sulle tematiche riguardanti le unioni di fatto ed il patto civile di solidarietà, ‘audizione del’avvocato Marina Marino, presidente del’Associazione nazionale avvocati matrimonialisti.
Ringrazio ‘avvocato Marino per la sua presenza in questa Commissione e le do subito la parola per la sua esposizione.

MARINA MARINO, Presidente del’Associazione nazionale avvocati matrimonialisti. La giurisprudenza ha tentato più volte di affrontare il tema in esame ma senza grandi risultati, salvo alcune affermazioni di principio importanti indicate dalla Cassazione fin dal 1993. Quindi, salutiamo con grande soddisfazione il fatto che il nostro legislatore si stia occupando di un tema che più volte è finito nelle aule di giustizia senza riuscire a trovare alcun esito al di là di affermazioni di principio come quella espressa dalla Cassazione nel 1993.
Oggi si assiste a un tentativo di regolamentazione attraverso numerosi progetti che sono stati presentati, dopo che anche ‘Unione europea ha espresso alcune raccomandazioni (che in molti Stati sono già state accolte) riguardanti la necessità di dare garanzie e regolamentazione al tema in esame.
Le modalità con cui può essere affrontata questa materia sono sostanzialmente due (si ritrovano anche nei diversi progetti pendenti in Parlamento). Si tratta, da un lato, di regolamentare le unioni per il solo fatto che esistono, quindi, ribaltando le norme che riguardano il matrimonio, intervenendo in favore delle unioni di fatto, dal’altro, di approntare progetti di legge che abbiano come obiettivo quello di riconoscere un patto di civile convivenza tra persone che decidono di vivere insieme.
Il problema di maggiore difficoltà rimane, comunque, quello relativo alle coppie omosessuali, per le quali, però, va ricordato che esiste una raccomandazione del’Europa precisa e chiara al riguardo.
Vorrei ora fare un richiamo alle discriminazioni che esistono tra i figli cosiddetti legittimi e quelli naturali. Innanzitutto, ritengo che sarebbe ora di abolire le differenze che ancora esistono, al di là di quanto si crede, fra queste due figure o tipologie di figli; si tratta della differenza caratterizzata dal’aggettivazione accanto alla parola «figlio». Infatti, tale semplice aggettivazione – figlio «legittimo» o «naturale» – è già, di per sé, una discriminazione contro la quale è necessario battersi. Quindi, inizierei con il domandare al legislatore che questa aggettivazione venga eliminata perché ciò si traduce in una discriminazione di fatto.
Per quanto riguarda ‘associazione che rappresento (salvo, poi, un ulteriore esame delle norme al vaglio del Parlamento) la nostra scelta va verso quel’istituto che, in Francia, è dominato PACS, cioè, un patto di solidarietà civile (così come si rinviene in alcuni progetti presentati). Seguiamo, quindi, una scelta di intervento secondo ‘individuazione di garanzie che debbono darsi sia per le coppie, sia, soprattutto, per i figli.
Ritengo sia ora necessario sottolineare alcuni problemi che mi preme richiamare alla vostra attenzione. Si tratta della necessità e possibilità di chiarire un fatto che si ritrova in modo abbastanza uniforme in tutti i provvedimenti, per cui è necessario intervenire in modo specifico, al di là degli aspetti relativi ai figli cui ho appena accennato.
Si tratta del problema relativo alle successioni (il nostro lavoro ci porta a verificare quali sono gli aspetti che maggiormente colpiscono i cittadini), della necessità di stare vicino al convivente in caso di malattia grave e, da ultimo, del problema relativo ai beni patrimoniali. In particolare, con riferimento a ques’ultimo, basti pensare alla possibilità, data ai soli figli legittimi, di liquidare la parte di patrimonio dei loro fratelli o sorelle «naturali» in caso di successione (in pratica, la volontà dei primi di procedere alla messa in liquidazione di uno o più beni prevale su quella dei secondi di opporsi.)
A questo punto, è utile ricordare che nel 1993 la Cassazione ha considerato come legittimi gli accordi tra conviventi in previsione della cessazione della convivenza (mi viene in mente che la Cassazione, per quello che riguarda i coniugi, ha poi sempre negato la possibilità degli accordi in previsione del divorzio ma questo è un altro discorso).
Ciò sta a significare che, da sempre, la cultura giuridica riconosce la possibilità ai cittadini di regolamentare i propri rapporti tramite accordi. Ciò premesso, il PACS è, secondo noi, lo strumento con cui si consente, intanto, una conoscenza diretta ai cittadini di questa situazione nel senso che troviamo assurdo il fatto che, ad oggi, il nostro paese riconosca la convivenza sotto il profilo legislativo soltanto in u’occasione, cioè, quando si tratta di effettuare delle visite a un detenuto da parte del convivente. È un caso abbastanza singolare perché il legislatore sembra essersi preoccupato di riconoscere la convivenza soltanto sotto questo aspetto che ho appena ricordato, il che fa sorridere (forse, pensava che i conviventi sarebbero stati quelli più soggetti a provvedimenti restrittivi della libertà; altrimenti, non si spiega perché non si è mai occupato della questione in altre occasioni).
Di questo aspetto, si è occupata la Corte costituzionale, in una sentenza del 1988, quando ha dichiarato ‘illegittimità di una norma che impediva la prosecuzione del contratto di locazione in capo al convivente. Addirittura, fino a quel momento, sempre a proposto di discriminazione nei confronti dei figli, neppure i figli naturali avevano il diritto di succedere nel contratto.
Mi pare che nei progetti al vostro esame venga fatta giustizia di tutta questa situazione, ma ribadiamo che ‘aspetto al quale teniamo particolarmente riguarda ‘eliminazione delle discriminazioni sotto ogni profilo nei confronti dei figli.
Le prime volte che ho parlato di discriminazione nei confronti dei figli mi sono sentita aggredita da coloro che rivendicavano il fatto che la legge sul diritto di famiglia le aveva abolite tutte. Ora, la legge sul diritto di famiglia è, a mio giudizio, una delle più belle leggi che siano state fatte dal nostro legislatore. Essa ha dei meriti enormi, come quello di aver adeguato alla Costituzione le norme che riguardano i rapporti familiari: sicuramente, però, non ha abolito tutte le discriminazioni. Tale legge ha contribuito a fare un primo passo in avanti, nel senso che non è stato più consentito parlare di figli illegittimi (questa, mi pare già una grande conquista). Ora, però, è necessario fare un successivo passo. Non si può più discriminare tra figli specificando con aggettivi qualificativi la loro posizione.
Tra le proposte in discussione, sono interessanti quelle che riguardano il riconoscimento del’esistenza di una convivenza che, per scelta delle persone, viene portata davanti al sindaco per essere riconosciuta secondo modalità che, alcune volte, sono predeterminate da norme le quali potrebbero essere anche di dettaglio. Come associazione, intendiamo impegnarci per far sì che le persone sappiano che, in determinate questioni, è possibile regolare i propri rapporti in maniera ulteriore rispetto a quanto stabilito dalle norme. Le norme devono infatti offrire un minimo di base comune a tutti ma poi, se i cittadini intendono compiere determinate scelte, ciò deve essere loro consentito. Per esempio, se in caso di successione, per una scelta che può essere condivisibile o meno, oggi non è previsto il pagamento di imposte, tali imposte non devono esistere più neanche tra i conviventi e nei confronti dei figli di questi ultimi.
Infine, un ulteriore problema che vorrei segnalare attiene alla necessità di prestare una particolare attenzione rispetto alle modalità di interruzione della convivenza. Ritengo che si debba operare una sorta di separazione dei conviventi. È necessario, però, chiarire questo punto. La scelta di cessare la convivenza può essere unilaterale (ho visto che sono previste varie modalità nei diversi progetti di legge); tuttavia, mi interessa ribadire la necessità che per tutte queste vicende (anche nel’ipotesi di un contrasto fra le due parti in ordine al’esecuzione dei vari impegni e obblighi reciproci discendenti dal rapporto) si faccia riferimento, comunque, alla giustizia ordinaria per il rispetto e ‘applicazione delle norme previste.
Sottolineo questo punto non tanto perché siamo preoccupati nello specifico ma per un atteggiamento generale di sottrazione alla giurisdizione di temi che sono tipici della stessa. Non possiamo declassare, come si è fatto per molti anni nei confronti dei minorenni, i diritti dei cittadini, la cui composizione, ove ci siano dei contrasti, deve avvenire nei tribunali.
‘è, invece, un tentativo di declassamento di questi diritti a meri interessi, quindi, ad una amministrativizzazione della situazione. Ciò non è ammissibile, né condivisibile perché i cittadini hanno il diritto di vedere decise le loro questioni da un tribunale con le garanzie del diritto di difesa e quan’altro.

PRESIDENTE. Ringrazio ‘avvocato Marino per la sua esposizione. Do la parola ai colleghi che intendano intervenire.

GIULIANO PISAPIA. È stata richiamata la sentenza della Cassazione del 1993; mi domando se sul riconoscimento di un accordo tra i conviventi, nel rispetto di un patto – di un contratto – tra essi, in caso di separazione ci sia una giurisprudenza di merito. Ci sono dei contrasti su questo tema?

MARINA MARINO, Presidente del’Associazione nazionale avvocati matrimonialisti. Ce ne sono parecchi!

GIULIANO PISAPIA. Sì, ma vanno nel senso di questo indirizzo?

MARINA MARINO, Presidente del’Associazione nazionale avvocati matrimonialisti. La sentenza della Cassazione è importante perché è una delle poche che è riuscita ad affrontare la questione in questi termini. Infatti, i tentativi di proporre tali questioni, per lo più, non hanno consentito questa scelta perché il più delle volte sono stati presentati ricorsi in materia di lavoro, presi, a mio giudizio, da un capo sbagliato. Sono state presentate una serie di cause di lavoro nelle quali, in genere, un convivente faceva causa al’altro per ‘attività espletata negli anni della convivenza. Ciò non è condivisibile: sotto il profilo del principio è totalmente inaccettabile presentare la convivente come una sorta di cameriera non pagata. Comunque, se la giurisprudenza al riguardo è stata negativa, ci sono dei casi in cui il problema è stato posto sia al tribunale ordinario, con una richiesta di applicazione in via analogica delle norme relative al mantenimento e alla separazione (ma queste sono state dichiarate inapplicabili), sia sotto il profilo appena ricordato, che era particolarmente sbagliato.
Quella sentenza della Cassazione cui ho fatto riferimento, parte, invece, da una causa iniziata sulla base di un accordo stretto tra i conviventi al momento del’avvio della convivenza. Si trattava di una sorta di accordo prematrimoniale – di preconvivenza – che doveva trovare applicazione laddove la convivenza fosse venuta meno. La Cassazione ha ritenuto la liceità, la legittimità e la validità di tutti quegli accordi, che prevedevano, tra ‘altro, per esempio, la costituzione di un comodato del’immobile in cui i conviventi vivevano a favore di uno dei due.
Quindi, questa sentenza della Cassazione ‘è stata – è una delle poche – perché, innanzitutto, è estremamente difficile che i conviventi stipulino prima del’inizio della convivenza un accordo. Se, infatti, i conviventi facessero ciò, sarebbe lasciata alla loro capacità di accordo e alla loro volontà di tutelare o meno (a seconda della forza dei contraenti al momento della convivenza) una certa situazione ogni passaggio futuro. Comunque, un accordo di tal guisa, sarebbe tuttora ritenuto valido dalla Cassazione perché ‘orientamento della Corte in proposito non è cambiato.

GIULIANO PISAPIA. Secondo me, ciò che è avvenuto dopo il 1993 dimostra la necessità di intervenire in questo campo perché si ha già una giurisprudenza che ha preceduto il legislatore.
‘altro aspetto che è stato sottolineato e su cui mi interessa ricevere un ulteriore commento di approfondimento riguarda una delle obiezioni che viene mossa rispetto a una situazione che noi consideriamo ingiusta; nel caso di assistenza al malato o di decisioni in sua vece quando questi non sia più in grado di farlo, viene privilegiato il familiare o il figlio legittimo. Anche nel corso di una precedente audizione, secondo la testimonianza di uno degli auditi, si ribadiva il concetto per cui molti trovano assurdo il fatto che la volontà del convivente possa prevalere su quella del figlio legittimo, rispetto a scelte che potrebbero riguardare la sopravvivenza o meno del malato.
Sotto questo profilo, che tipo di riflessione ‘è stata? Esiste una soluzione che può essere equilibrata e contemperare le due esigenze?

MARINA MARINO, Presidente del’Associazione nazionale avvocati matrimonialisti. Ritengo che non sia possibile operare, rispetto a questo tipo di situazioni, una graduazione tra soggetti che abbiano a dire sulla terapia da seguire, sulle scelte terapeutiche o sulla semplice visita. Vi sono situazioni non infrequenti nelle quali al momento della malattia di uno dei conviventi – ovviamente, mi riferisco a malattie gravi – il convivente, per ‘opposizione della famiglia di origine del’altro, non riesce neppure ad arrivare a parlare con i medici in ospedale, perché magari questi si rifiutano di parlare o dare comunicazione al convivente. Questo fatto mi pare veramente inaccettabile: si tratta di una graduazione di sentimenti per cui sarebbe migliore e più tutelabile il sentimento del figlio piuttosto che quello del convivente.
Quindi, mi rendo conto che è una situazione di difficile soluzione; tuttavia, sotto il profilo tecnico-giuridico non vedo come possa essere riconosciuta al’uno piuttosto che al’altro una possibilità di esclusione.
Un tema sicuramente più difficile attiene alle scelte terapeutiche. Ciò che, comunque, ritengo inaccettabile è la possibilità che ‘uno o ‘altro convivente possa escludere dalla vicinanza e dalla assistenza della persona malata il figlio o chicchessia. Questo è un principio umanitario minimo e non ‘è alcuna norma di diritto che consenta di fare una scelta di questo tipo!
Un argomento più difficile è invece quello della scelta terapeutica che, a mio personale giudizio, è risolvibile soltanto con il testamento biologico delle persone. Tra ‘altro, spesso e volentieri non siamo di fronte a situazioni di incapacità. Ci sono anche queste ma si tratta di altre questioni.
In questo ambito, va quanto meno chiarita la necessità di impedire che vengano compiute delle azioni di esclusione da parte di alcuni perché non ‘è alcuna norma che consente ciò; sarebbe contrario ad ogni minimo sentimento civile.

FRANCO GRILLINI. Sono particolarmente interessato da ciò che avviene dentro le aule dei tribunali perché quello della convivenza è ormai un fenomeno di massa, come dimostrano i dati ISTAT, peraltro, assolutamente imprecisi. A questo proposito, ricordo che ho presentato u’interrogazione parlamentare sulle modalità di raccolta di questi dati in occasione del censimento, ma la risposta del sottosegretario Ventucci mi ha lasciato totalmente insoddisfatto. Nel censimento, infatti, sono stati dichiarati incongrui e pertanto non utilizzabili i dati relativi alle coppie dello stesso sesso.
Tuttavia, nonostante le modalità dubbie di rilevazione del fenomeno della convivenza nel nostro paese, sta di fatto che persino secondo ‘ISTAT si tratta di un fatto in netta crescita che coinvolge ormai alcuni milioni di persone. Ciò si riflette anche nel’attività dei tribunali (non a caso nelle relazioni introduttive, al’apertura degli anni giudiziari, molti interventi sottolineano che il legislatore dovrebbe intervenire su questa materia).
Le vertenze nei tribunali sono ormai moltissime, sui più disparati argomenti. Alcune sono state da lei citate; altre sono relative a questioni molto serie, come quella della casa, non completamente risolta dalla sentenza della Corte costituzionale del 1988. Con tale sentenza, infatti, non si interviene sulla proprietà, per cui qualora il deceduto sia il proprietario della casa, il convivente che vi abita non può più vantare alcun titolo per continuare a vivere in quel’abitazione. Ci sono stati casi, anche illustri, di persone che hanno dovuto lasciare la casa immediatamente dopo il decesso della persona, con le conseguenze che vi lascio solo immaginare, posto che al danno della morte del convivente si aggiungeva anche quello di uno sfratto forzoso. Addirittura, in qualche caso, i parenti hanno chiesto anche ‘intervento della Forza pubblica. Quindi, non ci sono solo i processi relativi alla convivenza.
Il caso che poi si verifica più frequentemente, soprattutto a fronte di rapporti eterosessuali, è quello per cui un uomo si trova una donna più giovane sbattendo fuori di casa la compagna. Sul piano dei numeri questa è la fattispecie che si verifica più spesso. In tali casi, la povera convivente non può vantare alcun diritto e si vede così costretta ad aprire una vertenza di lavoro: ‘unico escamotage possibile.
Sono ‘accordo sul fatto che tale soluzione, in casi del genere, non ‘entra nulla ed è umiliante per la persona che la utilizza (non è umiliante farsi passare per una cameriera ma dovere rivendicare i propri diritti secondo questa modalità); rimane tuttavia ‘unico mezzo per rivendicare i propri diritti e, magari, la proprietà dei beni mobili e immobili che, spesso, per ragioni note di distribuzione del potere al’interno della coppia (sempre a favore del’elemento maschile), si fa risalire al’uomo. Quando poi la convivenza finisce, sorgono i problemi di divisione del patrimonio comune (magari è il caso di u’azienda costruita insieme) e dei beni mobili, che hanno un forte valore affettivo.
Da quello che mi risulta ci sono molte vertenze relative ai beni mobili. Ho visto alcuni casi drammatici dove il convivente ha dovuto dimostrare fatture alla mano, anche delle suppellettili, degli elettrodomestici. Da questo punto di vista in molte situazioni non sono stati riconosciuti neanche i patti di convivenza stipulati presso degli studi notarili, che danno questa possibilità pur premettendo che il loro valore legale è dubbio.
Uno degli elementi di polemica su questo terreno con chi non è ‘accordo sul’introduzione di una normativa simile a quella denominata PACS è che la nostra legislazione e la nostra giurisprudenza riconoscerebbero già questi diritti per cui non ci sarebbe alcun bisogno di una legge. Ovviamente, credo si tratti di un errore, in qualche caso persino di malafede, perché il nostro ordinamento non riconosce la validità degli accordi di convivenza, che servono più per le persone che li stipulano, come regolazione interna alla coppia, che come tutela legale. Un tentativo per attribuire valore legale ai patti di convivenza fu fatto dal’allora ministro Bellillo, ma non riuscì neanche ad arrivare al’approvazione in Consiglio dei ministri, senza ricordare poi gli altri tentativi non andati in porto.
Noi siamo di fronte ad una «vertenzialità» diffusa; probabilmente sarebbe utile che la Commissione studiasse questo aspetto, perché spesso e volentieri si parla di coppie di fatto, ma si ignora che vi sono mille storie riguardanti tali coppie, con situazioni molto dolorose, al limite della crudeltà.
Nella sua esperienza professionale quali sono le questioni che noi ritroviamo più frequentemente nelle aule dei tribunali?

MARINA MARINO, Presidente del’Associazione nazionale avvocati matrimonialisti. Le questioni che noi troviamo sono quelle relative alla divisione dei beni, soprattutto quelli mobili, perché nella divisione dei beni immobili i problemi in genere non si pongono. Soprattutto se il bene è cointestato, è tutto a posto; altrimenti, magari in presenza di contribuzioni non uguali da parte dei due conviventi, il problema si pone anche per questa tipologia. Per ciò che riguarda i beni mobili vi sono una serie di vertenze che difficilmente hanno esito positivo, in quanto, se una coppia acquista gli arredi della casa e i vari oggetti, è difficile che con il passare degli anni tenga con sé la fattura, anche perché spesso non ‘è mai stata. Il problema diventa complicato nel momento in cui si tenta di ottenere il riconoscimento che determinati beni sono stati acquistati da uno dei due in modo da ottenere ‘attribuzione in proprietà degli stessi. Si consideri che per la maggior parte delle coppie conviventi questo processo è estremamente antieconomico, in quanto dura diverso tempo, ha dei costi rilevanti e quasi mai gli oggetti sono di valore. Malauguratamente spesso si tratta di arredi fondamentali sotto il profilo affettivo ed economico; per le persone dover riacquistare questi beni costituisce una spesa estremamente onerosa. Trovare una soluzione automatica rispetto a questo problema garantirebbe un minimo di giustizia al’interno di queste situazioni.
Vorrei fare una precisazione, la sentenza che richiamavo prima è la n. 6381 del 1993; quando facevo riferimento alla possibilità di regolamentare il comodato ‘uso della casa, il riconoscimento di un diritto reale come ‘usufrutto degli immobili, la possibilità di vedersi riconosciuta ‘erogazione di una somma, intendevo dire che non possono certo essere le parti a regolamentare aspetti che debbono essere disciplinati dalla legge, come i problemi relativi ai figli, alla successione e tutti gli altri cui facevo prima riferimento. Il fatto che la Cassazione abbia riconosciuto tutto questo non significa certo che sia inutile una normativa al riguardo, perché quegli accordi non potranno mai regolamentare questioni che investono altri; ad esempio due parti possono anche stabilire la reversibilità di una pensione al momento della morte di uno dei due, ma non ci sarà ente previdenziale che la paghi se non è tenuto a farlo in base ad una norma.

BEATRICE MARIA MAGNOLFI. Ho ascoltato con attenzione ‘intervento del’avvocato Marino, sono rimasta particolarmente impressionata dalla sua considerazione relativa alle discriminazioni sui figli. In effetti ci troviamo di fronte a regimi completamente diversi, che fanno pensare ad una discriminazione che non mette in linea con il dettato costituzionale neanche i figli, soprattutto se si pensa che queste coppie di fatto sono a volte determinate dalle lungaggini del divorzio derivanti dalla legislazione e dai tempi della giustizia. Come Commissione, nel cercare di portare avanti il provvedimento, abbiamo pensato di concentrarci sulle questioni che riguardano la convivenza tra gli adulti, rinviando alle previsioni attualmente contenute nel codice civile le questioni riguardanti i figli. Per un motivo di strategia parlamentare pensiamo che in questo caso sia opportuno cominciare a regolamentare la situazione che, come si è detto finora, produce contenzioso e non dà diritti, introducendo nel’ordinamento questo principio. Anche io considero enorme il problema dei figli e, probabilmente, meritevole di un provvedimento ad hoc. Vorrei conoscere ‘opinione di un tecnico su questa modalità dettata più da opportunità politica che da altro. Siamo su un terreno nuovo, molto complesso; pensiamo che il primo passo fondamentale sia quello di inserire nel’ordinamento questa casistica, dotando di diritti le persone adulte che attualmente ne sono completamente prive. Ritiene che un provvedimento appositamente dedicato ai figli possa rappresentare la soluzione migliore per tutti i numerosi aspetti che interessano la questione?

MARINA MARINO, Presidente del’Associazione nazionale avvocati matrimonialisti. Se questo è un impegno ad affrontare la questione del superamento delle discriminazioni che pure ancora esistono nei confronti dei figli, va benissimo.
È necessario, però, mettere al’ordine del giorno un problema che non costituisce semplicemente un fatto nominalistico, bensì di sostanza. Parlare di figli legittimi o naturali, è evidentemente improprio e provoca, di per sé, delle discriminazioni. Quindi, se le vostre parole vanno nel senso di impegnarsi ad affrontare il problema in tempi brevi, ne sono felice. Mi auguro che questo compito venga portato a termine.

NINO STRANO. Ringrazio ‘avvocato Marino per la sua esposizione. Vorrei soltanto sollecitare un parere tecnico in merito a quanto pubblicato oggi da Il Messaggero in prima pagina. Si riprende una dichiarazione di Doriano Galli, segretario nazionale della lega per i diritti sessuali della persona, il quale cita una legge del 1937 che permette di certificare le convivenze more uxorio. Pare che vi siano state due sentenze in tal senso – una sarà addirittura festeggiata in questi giorni a Roma – che hanno permesso la certificazione di questo status (una nel 1981 e una ulteriore nel 1985).
Si conclude ‘articolo sostenendo che la legge ‘è ma è poco nota; per questo motivo le domando se, a suo parere, qualora fosse vero questo tipo di impostazione, proprio essa non possa esserci utile nel percorso che stiamo realizzando.

MARINA MARINO, Presidente del’Associazione nazionale avvocati matrimonialisti. Non conosco queste sentenze ma ho ‘impressione che si faccia riferimento a quanto ho già affermato, cioè, alla possibilità di dichiararsi al comune come conviventi. Infatti, ‘unica norma che dà rilevanza giuridica allo stato di fatto della convivenza risultante dal certificato anagrafico è la possibilità per il convivente di andare a trovare in carcere il convivente detenuto. Non conosco le due sentenze da lei citate; osservo comunque che dal’ultima – quella del 1985 – sono passati ven’anni.

NINO STRANO. Ma ‘altra è in fieri!

PRESIDENTE. Non essendovi altri interventi, ringrazio ancora ‘avvocato Marino per la sua esposizione. Saremo lieti di acquisire eventuali documenti o relazioni scritte ai fini di un maggior approfondimento nel nostro lavoro.
Dichiaro conclusa ‘audizione.

La seduta termina alle 10.


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