La dura vita dei gay mediorientali

  

Barra, “fuori” in arabo. Ovvero il corrispettivo dell’outing inglese. È questo il nome della prima (e per ora unica) rivista gay del Medio Oriente. E non è un caso che sia nata e sia distribuita nel paese più liberale della regione, il Libano. Un manipolo di coraggiosi giornalisti, membri dell’associazione Helem, l’acronimo arabo che sta per “Protezione libanese per lesbiche, gay, bisessuali e transessuali”, ha deciso l’anno scorso di dar vita a un trimestrale nuovo e senza precedenti.

Da qualche mese la rivista è realtà, nonostante le difficoltà di budget e i possibili problemi con le autorità (in Yemen, nel 2004, un tribunale ha condannato tre giornalisti ad alcuni mesi di reclusione per aver pubblicato sul settimanale per cui lavoravano delle interviste fatte a uomini in carcere perché omosessuali). In Libano queste cose non accadono. Ma nonostante la relativa liberalità del paese, l’omosessualità — o, per seguire la definizione dell’articolo 534 del codice penale libanese, “le relazioni sessuali contrarie alle leggi della natura” — è ancora illegale e punibile per legge con un anno di reclusione. Una punizione blanda se paragonata a quelle previste nei paesi vicini e che non viene applicata quasi mai. Ma che permette alla polizia di vessare in ogni modo la locale comunità omosessuale.

Proprio l’annullamento dell’articolo 534 è l’obiettivo primario di Helem e dei suoi membri, perché — recita il loro sito — l’abrogazione della legge potrebbe “aiutare a ridurre la persecuzione dello Stato e della società e aprire la strada al raggiungimento dell’uguaglianza per la comunità lesbica, gay, bisessuale e transessuale in Libano”. Barra, con articoli in arabo, francese e inglese, diventa quindi uno strumento di lotta, per fare advocacy, aprirsi al resto della società e cercare un dialogo. Anche attraverso delle provocazioni, più o meno pesanti. Nel numero zero della rivista, consultabile online all’indirizzo www.helem.net/barra.htm, il primo articolo in inglese apre con un titolo che attira l’attenzione: “Il Libano come destinazione del turismo gay?” Il paese ha molto da offrire dal punto di vista turistico e naturalistico, alcune delle spiagge del paese sono considerate gay-friendly e Beirut offre una gay life che, per quanto nascosta, è piuttosto viva. Ciononostante, no, ci dice il redattore, purtroppo il paese non è percepito come una meta consigliabile, essenzialmente per i problemi di insicurezza legati all’instabilità politica della regione.

Non è quindi il timore per un’eventuale applicazione della legge a impedire lo svilupparsi di un turismo gay in Libano. Altrettanto non si può dire per gli altri paesi del Medio Oriente, le cui leggi in materia sono spesso molto più restrittive e dove la pressione sociale sulle comunità omosessuali è molto più schiacciante. L’omosessualità è legale solo in Israele e in Giordania. Per il resto, si va da pene di un anno di reclusione previste in Libano e in Siria ai dieci anni di prigione previsti in Palestina e Bahrein, per finire con la pena di morte con cui possono essere puniti gli omosessuali di Iran, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Yemen. In realtà però difficilmente le pene vengono portate a termine, anche se ciò non significa certo che la condizione degli omosessuali in questi paesi sia migliore di quanto appaia considerando solo la legislazione in vigore. L’eccezione a questa regola è l’Iran, dove nel luglio scorso due ragazzi sono stati impiccati. Ufficialmente, con l’accusa di aver violentato un ragazzo più giovane di loro. Ufficiosamente, secondo quanto hanno sostenuto i gruppi di tutela dei diritti umani, in primis Amnesty International e Human Rights Watch, solo perché omosessuali. I fatti di quest’estate confermano un dato di fatto noto già da tempo. Cioè che a detenere il record negativo per quel che riguarda la persecuzione nei confronti degli omosessuali sia proprio il paese degli ayatollah, dove dalla rivoluzione islamica del 1979 a oggi pare che siano state eseguite le condanne a morte di migliaia di uomini gay (o presunti tali).

Negli Emirati Arabi Uniti, invece, dove la pena di morte per omosessualità, seppur in vigore, non viene comminata, non si sa bene quale sia stato il destino dei ventisei uomini arrestati a novembre perché, secondo le autorità, avevano preso parte a un matrimonio gay in un hotel di Abu Dhabi. Secondo le dichiarazioni rilasciate dalla polizia e da funzionari del ministero degli interni, poi in parte smentite, pare che i detenuti subiranno una cura ormonale e psicologia forzata per “guarire” la loro identità sessuale. Tutte le richieste di chiarimenti e i richiami alla lettera dei trattati internazionali e all’etica medica fatti da Amnesty International e da altri gruppi per la tutela dei diritti umani, oltre che da alcuni governi occidentali, non hanno per ora sortito alcun effetto.

Una vicenda simile, che ha avuto una grande risonanza internazionale, è accaduta al Cairo nel maggio 2001, quando la polizia fece irruzione su uno dei barconi ancorati lungo le sponde del Nilo. Il Queen Boat era conosciuto come un locale abitualmente frequentato da omosessuali. Cinquantadue uomini furono arrestati per offese alla moralità e alla religione, oltre che per depravazione. In Egitto, infatti, l’omosessualità non è esplicitamente fuori legge, ma è considerata un tabù sociale ed è punita con pene fino a un massimo di cinque anni facendo ricorso a varie norme, in particolare a quelle solitamente usate per i reati legati alla prostituzione. L’eco internazionale che il caso del Queen Boat ha avuto ha in parte oscurato il fatto che la retata nel locale sul Nilo sia stato di fatto l’inizio di un progressivo giro di vite nei confronti della comunità omosessuale egiziana, che è continuato negli ultimi anni. Tutti i ritrovi per gay sono stati chiusi, uno dopo l’altro, costringendo gli omosessuali a ritrovarsi in internet per evitare di essere arrestati e torturati.

Anche per questo clima di crescente persecuzione, la presenza tra i personaggi di Imarat Ya’qoubian (“Palazzo Yacubian”), il romanzo del dentista cairota Alaa al-Aswany apparso nel 2002 e diventato subito un bestseller in tutti i paesi di lingua araba, di un giornalista omosessuale, Hatim, che vive una tragica storia d’amore con Abduh, ha fatto scalpore. È proprio Hatim la vera novità sociale, ancor più che culturale, del romanzo. “Da noi”, spiega Aswany, “gli atteggiamenti sono solo due. O non vediamo gli omosessuali, cioè non li identifichiamo come tali, oppure non ci piacciono. Io ho tentato di fare quello di cui la letteratura è capace: di renderci solo essere umani, più tolleranti e anche più comprensibili agli altri”.


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