In un lungo articolo dell’Avvenire dal titolo “Ds & famiglia, i conti con la realtà”, Pier Luigi Fornari, ripercorre la storia dei rapporti fra Pci, Pds, Ds e il tema della famiglia a partire da una tesi assai ardita: il progressivo abbandono da parte di questo partito di una originaria difesa della famiglia tradizionale sarebbe la causa di una disgregazione sociale che rischia di produrre un “deserto umano”.
È vero che il Pci, già nell’Assemblea costituente, aveva affrontato il tema della famiglia con una certa subordinazione ideologica al punto di vista cattolico, assumendo un atteggiamento possibilista persino sul tema dell’indissolubilità del matrimonio. Ma il Pci non si attesterà su questa linea, che avrebbe ridotto il matrimonio civile ad una ratifica dell’omonimo sacramento cattolico. In quel partito mancava una seria attenzione ai temi delle libertà individuali, considerati poco più che vezzi borghesi, tant’è che le prime discussioni parlamentari sul tema del divorzio, alla fine degli anni sessanta, avvennero su iniziativa dei socialisti e dei liberali. Per la tradizione comunista i diritti legati alla sfera familiare, affettiva, sessuale non erano che manifestazioni di una sovrastruttura ideologica marginale rispetto ai temi reali, quelli legati alle dinamiche economiche e al conflitto di classe. Una tradizione dura a morire, se un esponente del PdCi come Marco Rizzo ha dichiarato di recente: “Dovrei battermi per i transgender o per i proletari? Non ho nulla contro gli omosessuali, però il conflitto sociale viene prima. Il resto verrà".
Questa miope contrapposizione fra diritti di soggetti discriminati la dice lunga su quanto abbia fatto fatica ad emergere, prima nel Pci e poi nei Ds, la questione del riconoscimento di differenti forme di famiglia. Un esempio positivo di questo percorso è dato da Nilde Iotti, che nella Costituente si era occupata proprio di famiglia e che nel 1998, cinquantenario della Costituzione, firmò un progetto di legge sulle Unioni affettive che recitava: “’unione fra due persone, di maggiore età, dello stesso sesso, legate da vincoli affettivi, di solidarietà e di reciproca assistenza, morale e materiale, è riconosciuta dalla legge ai fini della costituzione e della pubblica registrazione”.
Quello che è accaduto in quei cinquant’anni è sotto gli occhi di tutti: nelle regioni amministrate dalla sinistra si è registrata la più ampia e diffusa tutela delle famiglie, considerate nei loro effettivi processi di trasformazione e nei loro bisogni concreti: asili nido, assistenza agli anziani, attenzione al lavoro femminile. Le famiglie italiane chiedono serie politiche di welfare, non costruzioni ideologiche. Secondo l’Eurispes il 68,7% dei cattolici italiani è favorevole ad una legge sul Pacs; l’Istat ci mostra che le coppie di fatto nel Paese sono un milione e duecentomila; numerosi Statuti regionali hanno riconosciuto, in modo laico e pragmatico, una pluralità di forme familiari a cui garantire servizi sociali e opportunità.
Le istituzioni della Repubblica non sono tenute al rispetto dei principi di una confessione religiosa, ma ai bisogni della popolazione, nel rispetto dei principi costituzionali. Quando l’art. 29 della carta fondamentale riconosce i diritti della famiglia fondata sul matrimonio, non nega diritti ad altre forme di relazione affettiva: come ha sancito già nel 1986 la Corte Costituzionale, una relazione di coppia stabile, anche se non unita in matrimonio, ha una rilevanza costituzionale ai sensi dell’art. 2.
Eppure in Italia non c’è né una legge che riconosca diritti delle coppie di fatto né un istituto giuridico a cui, come avviene nel resto d’Europa, possano avere accesso anche le coppie dello stesso sesso. A dispetto degli impegni presi con le organizzazioni gay e lesbiche, l’Unione non è riuscita ad accordarsi sull’istituzione del Pacs. Ma, con buona pace dell’Avvenire, noi sappiamo che la fine di questa sorta di apartheid sessuale che allontana l’Italia dagli altri grandi Paesi europei è solo questione di tempo.