Mentre pascolano le loro pecore su una montagna del Wyoming, poco al di sotto del limite degli alberi, due derelitti cowboy vengono colti improvvisamente da una passione reciproca che non sanno come chiamare, e men che meno come affrontare. Nessuno dei due pensa di essere omosessuale; è la montagna, semmai, ad avere sia il merito che la colpa di una relazione che per i vent’anni a seguire donerà alla loro vita un intermittente splendore, pur gettandoli a terra per altri versi. «Brokeback Mountain» è veramente la prima storia d’amore gay di Hollywood, come è stato detto? La risposta, a cui darei un senso molto positivo, è sì per quanto riguarda la storia d’amore, no per quanto riguarda l’omosessualità. Non si fraintenda: il film è esplicito nella rappresentazione del sesso tra uomini come nell’uso delle tradizionali convenzioni dei film romantici. Gli attori sono assolutamente incantevoli, Jake Gyllenhaal dai grandi occhi è tanto lontano dal Jack Twist di Proulx, piccolo e con i denti sporgenti, quanto il biondo Heath Ledger, con la sua mascella squadrata, lo è da Ennis Del Mar, «malmesso e dal petto un po’ incavato». Ma anche se Gyllenhaal e Ledger, coi loro jeans ben tagliati e le camicie a scacchi stirate, a volte hanno più l’aria di modelli per una pubblicità dei Wrangler che di ragazzi troppo poveri per potersi comprare un nuovo paio di stivali, il film non appare né artificioso, come lo spaventoso «Making Love» di Arthur Hiller (1982), né sciocco come un film pornografico gay. Al contrario, la debordante presenza scenica dei suoi attori offre a Lee il mezzo di dare un’intensa vita cinematografica a quel che di fatto è un inno alla mascolinità.
E il film effettivamente è virile. L’incredibile interpretazione di Ledger fa emergere un’insospettata vena di tenerezza in un personaggio più portato a esprimere le emozioni con la violenza che con le parole. Il suo Ennis Del Mar è monolitico come il paesaggio di montagna in cui, con la stessa rapidità, brutalità e precisione con cui spara a un alce, fa l’amore con Jack Twist per la prima volta, «Il fucile sta per sparare», bofonchia Jack (nel racconto, non nel film). La sorpresa di Ennis per la faccenda, per quanto sia imbarazzante e intensa, riflette una fondamentale timidezza che continua a contrapporsi alla volontà di Jack di essere più audace. È Jack che seguita a proporre di metter su un ranch insieme, un progetto che Ennis rifiuta per realismo (e per paura), anche dopo che sua moglie Alma divorzia da lui. Ennis confina la relazione a due o tre spedizioni di caccia e pesca all’anno. È come se credesse che non meriti di più.
Jack, d’altro canto, è spinto a cercare altri uomini dalla stessa sfrontatezza che gli fa sognare una «dolce vita» con Ennis – una possibilità a cui Ennis non penserà mai. Probabilmente è proprio la delusione per essere tenuto a freno da Ennis che spinge Jack verso un rozzo simulacro a Juarez, dove, in una delle scene centrali, abborda un ragazzo di strada e scompare con lui nell’oscurità di una stradina. La scena è spiazzante, non solo perché è in netto contrasto con i rapporti inebrianti ed esaltati che Jack ed Ennis consumano in cima alla montagna, ma anche perché segna l’unica incursione di Lee nel paesaggio urbano notturno che era il luogo tradizionale dei film gay degli anni Settanta e Ottanta, da «Nighthawks» a «Taxi zum Klo» a «Cruising». Anche se solo per un momento, il sesso è rappresentato come alienato e senza affetto, pallido sostituto di un legame.
Questo non è, però, il senso che si coglie nel resto di «Brokeback Mountain». Forse ci vuole una donna per creare un racconto in cui due uomini vivano il sesso e l’amore come uno stesso colpo di fulmine che li unisca per la vita. La prosa nel racconto audace ed ellittico di Proulx è mossa da un motore imprevedibile come quello dello scassato camioncino di Jack Twist, con il risultato che spesso si trovano alla fine scene che uno scrittore più convenzionale metterebbe all’inizio o al centro. Ma anche se gli sceneggiatori, Larry McMurtry e Diana Ossana, hanno per lo più eliminato le bizzarrie visionarie del racconto, sono peraltro riusciti a rendere più comprensibile la vicenda. Ad esempio, sviluppando elementi a cui la Proulx allude solamente, ampliano la parte centrale del racconto, troppo compressa, in cui è descritta simultaneamente l’evoluzione e la dissoluzione della relazione di Jack ed Ennis (con un espediente particolarmente acuto, due brevi allusioni – una alla moglie di un rancher con cui Jack sostiene di flirtare, l’altra a un vicino con cui ha parlato di riavviare l’impresa del padre – diventano un importante filo narrativo). Nella seconda parte di «Brokeback Mountain» si alternano scene di quotidiani dolori domestici (con rare gioie) ai viaggi che Jack ed Ennis fanno insieme in montagna, e durante i quali, man mano che invecchiano (Gyllenhaal mostra una pancia prominente e baffi da settantenne), il sesso viene sostituito dal battibecco e da ciò che si potrebbe descrivere come una specie di consuetudine coniugale. Appare chiaro che quel che entrambi gli uomini vogliono è ciò che Ennis teme: la stabilità del loro rapporto. Si tratta della più esplicita difesa del matrimonio gay che abbia mai visto rappresentare.
Ciononostante, con l’unica eccezione della scena a Juarez, nulla in «Brokeback Mountain» è un proclama dell’«essere gay». Nessuno dei due uomini rifugge dal sesso con le donne, né Lee fa alcun riferimento, neanche en passant , a ciò che oggi chiamiamo «cultura gay», o «identità gay». A un certo punto della storia, Ennis chiede a Jack: «Questo capita anche ad altri?», e Jack risponde: «Non in Wyoming, e se capitasse non so che cosa farebbero, forse andrebbero a Denver». Saggiamente McMurtry e Ossana lasciano quest’unico riferimento alla vita delle grandi città fuori del film, il cui proposito sembra essere non tanto quello di sovvertire le convenzioni dei legami tra uomini quanto quello di ampliarle: sembra voler suggerire che il confine tra cameratismo e passione potrebbe essere più incerto di quel che appare. Lontani dall’evitare l’affetto, gli uomini semplicemente lo esprimono in maniera più aspra, e Ledger dimostra questo aspetto conferendo alla recitazione quella tenerezza muta e reticente degli attori dei western hollywoodiani degli anni Cinquanta. È il suo stoicismo a guidare il film, e mai in maniera così commovente come nella frase che diventa il suo motto: «Se non riesci a risolvere la cosa, fattene una ragione».
Il fatto che in «Brokeback Mountain» non ci sia nulla di apertamente gay ha a che fare con il rifiuto del film di sottomettersi ai cliché del cinema e della televisione cosiddetti gay? Forse. In ogni caso McMurtry, Ossana e Lee hanno il merito di essere stati tenaci (ci sono voluti sette anni per fare il film), e di essersi rifiutati di sacrificare la visione sobria e senza compromessi della Proulx. Alla fine, «Brokeback Mountain» non è tanto la storia di un amore che non osa definirsi tale, quanto quella di un amore che non sa come definirsi, ed è proprio questa sua mancanza di un vocabolario adeguato a renderlo più eloquente. Venendo da luoghi in cui conducono una vita di duro lavoro e di quotidiane umiliazioni, Ennis e Jack diventano gli eroi involontari di una storia che non sanno come raccontare. Il mondo li umilia, ma in questo film coraggioso, che potremmo dire maschilista, sono delle icone come la montagna.
David Leavitt
(Traduzione di Maria Sepa)