Matthew Mitcham non lo sapeva che, rispondendo così a quella domanda, avrebbe scardinato un tabù: quello del maschio gay nel mondo dello sport, tradizionalmente il tempio della virilità. È così, e non solo da noi, ma in tutto il mondo.
Però a Matthew, qualche giorno prima di partire per Pechino, alla domanda ”con chi vive lei?” è venuto naturale rispondere “vivo con il mio compagno”. È partito così per Pechino, come l’unico maschio gay dichiarato delle Olimpiadi. Le donne invece erano sei. Su 10.708 atleti a Pechino, sette hanno fatto coming out. Ma le atlete si sa fanno meno notizia, perché nello stereotipo, le atlete lesbiche corrispondono ad un modello maschile (sono un po’ maschiacci!!!) e il machismo dello sport non può che uscirne rafforzato. Ma solo nello sport, attenzione.
Ho incontrato Mattew Mitcham sabato sera al Gayvillage a Roma. Gli organizzatori hanno confermato che il Gayvillage è un luogo non solo di divertimento, ma dove la lotta alle discriminazioni viene fatta promuovendo una cultura positiva dell’omosessualità. Non a caso lo slogan di quest’anno è “Straordinaria normalità”. Sembra fatto su misura per Matthew, tuffatore, medaglia d’oro a Pechino nella piattaforma dei dieci metri.
Lui è straordinario perché è un atleta, è un mito, il suo obiettivo è la perfezione del gesto atletico. Ma ha voluto compiere anche un gesto di straordinaria normalità. È giovane, ha vent’anni ed è piccolo e compatto come tutti i tuffatori. Siamo saliti sul palco del Gayvillage insieme, davanti a migliaia di gay e lesbiche italiani che finalmente potevano vedere in carne ed ossa quell’eroe di sport che ha rappresentato nel circolo mediatico mondiale che sono le Olimpiadi “la normalità dell’omosessualità”, la vera rivoluzione che noi stiamo aspettando nel nostro paese. Grazie Matthew, gli hanno detto gli organizzatori, “We are proud of you”. E lui dolce e sincero ha apprezzato.
Ero lì con Metthew a raccontare che una medaglia d’oro l’avevo vinta anch’io agli Eurogames di Barcellona, ai campionati dei gay e delle lesbiche d’Europa. Naturalmente, non c’è paragone ma, mentre la sua è la medaglia dell’integrazione, la mia è quella della lotta alle discriminazioni. Infatti l’ho dovuta sacrificare sull’altare di un paese che non riesce a darci uno straccio di legge, un paese medievale. La mia medaglia l’ho data come pegno al Presidente della Camera, dicendogli che la voglio indietro solo quando questo Parlamento avrà approvato una legge in favore dei cittadini e delle cittadine omosessuali. Lui, Fini, ha incassato. E ce la metterò tutta perché quella medaglia mi venga restituita presto insieme ad una legge dello Stato. Peserà di più, di quel poco che vale e avrà assolto al suo compito.
Lo sport è un grande strumento di trasmissione di messaggi positivi (doping a parte) e le Olimpiadi ce lo raccontano ogni quattro anni. Gli atleti sono dei modelli da imitare per i giovani, ma non solo. Diventano esempi di vita. E Matthew questo lo sa, nonostante i suoi vent’anni sa bene che può essere un esempio per tanti giovani. Per questo non ha avuto paura a dire che se gli atleti omosessuali facessero coming out, il mondo dello sport sarebbe meno omofobo, sarebbe migliore. Come la società intera.
Il coming out non è per lui e per noi una ossessione. No cari miei, perché la crescente omofobia alla quale stiamo assistendo in Italia la conosciamo bene e la privacy, guarda un po’, viene invocata solo quando si deve parlare di persone che si amano e sono famiglia e non di sesso tra omosessuali. Quanto fa paura che gli omosessuali possano essere agli occhi di tutti “persone normali”, non quei perversi e deviati ai quali tanta stampa italiana ci ha abituati e che ci rassicurano tanto!
Perché l’omosessualità, come ci spiega Vittorio Lingiardi nel suo bellissimo libro Citizen gay, è un accadimento ineluttabile della vita. Nulla di più e per questo fa tanta paura. Può capire a me a te, a mia moglie a mio marito, a mia sorella, a mio fratello, perfino a mia madre o a mio padre.
Grazie a Matthew Mitcham e allo sport da oggi lo sa anche l’Italia.