Dalla e l’omosessualità

  

di Lidia Lombardi
Questo giornale l’aveva vista, eccome, l’uscita di Lucia Annunziata durante il suo «In mezz’ora». Ovvero l’exploit sulla omosessualità di Lucio Dalla nell’ambito di una trasmissione che in soldoni era la riparazione di una gaffe della giornalista commessa durante l’intervento pro Celentano negli studi di Santoro. «Difenderei Celentano anche se mandasse i gay nei campi di sterminio, aveva azzardato Lucia in quell’occasione. Facendo imbufalire gli omosex. Così domenica, infervorata nella difesa della diversità sessuale, «In mezz’ora» ha volentieri sguazzato nell’accusa alla Chiesa di essere ipocrita perché sui funerali del credente Dalla nella cattedrale di Bologna aveva detto ok, ma proprio perché le scelte di vita e di sesso erano rimaste sotterranee, taciute dal protagonista del rito collettivo e nazionale delle esequie bolognesi. E dunque questo giornale ha dato notizia della sparata dell’ex presidente Rai, ma all’interno della cronaca della giornata, senza urlarla più di tanto. E invece ieri, sulle prime pagine dei quoditiani politicamente corretti e non (nei confronti del Vaticano, s’intende) l’omosessualità dell’autore di Caruso ha tenuto banco. Giù titoloni, analisi, comparazioni su chi ha fatto outing e chi no. Giù le rivendicazioni degli organismi gay. Sparate le foto delle lacrime dell’«amico del cuore» di Dalla, Marco Alemanno. E in fibrillazione la Rete sull’argomento, con il crucifige inflitto ai benpensanti, agli immarcescibili tartufi, ai preti che tacciono, ai vescovi che negano diritto di riflettori a chi – nell’ottica cattolica – sbaglia. Un bailamme mediatico che è proseguito per tutta la giornata in ulteriori liti a distanza e analisi del personaggio Dalla. Perfino condanne del cantautore sensibile, amico di tutti, curioso della vita e degli altri così come era stato santificato il giorno prima, a cadavere caldo, e ancora, nell’abbraccio della sua Piazza Grande. Ecco allora una sequenza parossistica di accuse e controaccuse, un paradossale rovesciamento dei fronti. Quello che era stato il confessore di Lucio, il domenicano padre Boschi, appariva secondo alcune testate (la Repubblica in primis) il ripiego compromissorio dei vertici ecclesiastici. Parli lui nell’omelia del cristiano Lucio, non il vescovo. E se poi tende la mano a Marco Alemanno, che piange durante l’orazione funebre, allora si schieri apertamente per la causa gay. La risposta di Boschi ha incendiato la pira. «Non si condanna il peccatore, ma il peccato. Ho stretto la mano ad Alemanno perché soffriva, le polemiche sulla sua presenza sull’altare sono micidiali sul piano umano». Poi, l’accusa più forte: «È una vendetta gay perché Lucio era una persona di gran fede e non ha mai voluto conclamare la propria omosessualità». Il sabba sul corpo piccolo e gentile di Dalla è continuato. L’Arcigay affonda con un «non è mai stato la nostra bandiera». Un altro leader storico del movimento omosex, Aurelio Mancuso, distingue e si divide: «Davanti alla morte ci si deve solo fermare». Franco Grillini, che è bandiera omosex da anni e ora è entrato nell’Idv, il partito di Di Pietro, spiega: «Dalla era gay e tutti lo sapevano. La Cei non ha voluto le sue canzoni in chiesa perché ne veniva fuori l’idea dell’amore da vivere come si vuole. Abbiamo rimproverato i giornali: se muore un poveraccio omosessuale si dice tutto di lui, se muore un omosessuale famoso e si fa il funerale in chiesa, non si può dire nulla». Che rovesciamento di fronti. L’uomo che incarnava un pezzo di cultura pop italiana, quello al quale il Capo dello Stato ha inviato la corona di fiori che lo ha accompagnato, sul feretro, nel giro per i colli bolognesi e alla sepoltura nella Certosa, il personaggio che aveva accomunato nel cordoglio destra e sinistra, è diventato in 24 ore lo strumento di polemiche di partiti e di lobby. Gli è toccato – a Lucio che doveva ricevere gli applausi all’Olympia di Parigi – fare da parafulmine perfino agli strali sguaiati della Lega. Ecco Radio Padania rimproverargli d’essere «cantore dell’Italia Tricolorita» e di scrivere canzoni «italiote, più che italiane». Ed ecco il pidiellino Berselli replicare «i leghisti sconfinano nelle cretinate». Mentre Buttiglione chiede con Giovanardi rispetto per lo scomparso. Che pena. Soprattutto quale offesa consumata su un morto che non ha mai voluto parlare del sé stesso più recondito prima e che adesso, nella tomba semplice, nel fornetto a muro, accanto al padre e alla madre, ha la bocca chiusa per sempre. Ha avuto stile, Lucio Dalla, a vivere come ha voluto, senza sbandierare quello che faceva una volta chiusa la porta di casa sua. Altri, hanno ricordato ancora i giornali, hanno fatto outing. Cecchi Paone, Tiziano Ferro, per esempio. Decisione libera e liberatoria, per loro. Dalla ha optato per altro. Un diritto negato post mortem. Al punto che il suo cuore, i suoi sentimenti ora sono vivisezionati. Peggio che se la morte fosse arrivata per un assassinio, e lui dovesse sottoporsi ad autopsia, allo scavo delle visceri, del cervello, dell’anima. La furia dell’ideologia, la voglia di crociata sempre e comunque. Alla faccia del mistero di ognuno, di chi non è fantoccio ma persona.


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