Gay nei clan, il racconto di Saviano: “Per i boss sono una vergogna”

  

È sabato mattina. Ma non è un sabato come tutti gli altri. Infatti, oggi è il 12 novembre e al Rione Sanità di Napoli, è arrivato Roberto Saviano che si appresta a presentare, in anteprima nazionale, il suo nuovo romanzo, La Paranza dei bambini, edito da Feltrinelli.

L’evento avrà luogo nel pomeriggio, nella sala del Nuovo Teatro Sanità, diretto dal drammaturgo e regista Mario Gelardi. E non è una scelta casuale, perché Gelardi, amico e sodale di Saviano, ha trasformato questo spazio in un vero avamposto di diritti, impegno civile e legalità.

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Poiché per la presentazione si prevedono vere e proprie folle oceaniche, approfittiamo della disponibilità di Gelardi per incontrare Saviano un paio d’ore prima dell’evento e fargli qualche domanda.

Roberto, tu hai sempre avuto una posizione molto netta e chiara a favore delle istanze della comunità lgbt. Nel discorso che inviasti ad Arcigay in occasione dell’ultimo Congresso Nazionale, svoltosi a Napoli nel 2015, marcavi l’arretratezza di un Paese che nega diritti ai cittadini lgbt. Dopo la legge Cirinnà sulle Unioni Civili, a che punto è la notte?

Secondo me, c’è ancora molto da fare. La legge sulle unioni civili è un bel traguardo ma non è tutto. Quello che mi stupisce è questa specie di percorso a doppio binario: da un lato la politica, così prudente, così bloccata e così terrorizzata di poter perdere consensi – d’altronde per questo è stata stralciata la cosiddetta “adozione del figliastro” dalla legge – dall’altro la magistratura che si dimostra illuminata e interviene spesso a “sanare” mancanze della legge. La strada è come sempre, in Italia, contraddittoria: si fa un passo avanti e uno indietro. Il problema è la conoscenza, tutto parte dalla diffusione della conoscenza, unica strategia per distruggere il pregiudizio.

Il tuo ultimo romanzo, La Paranza dei bambini, pone un’attenzione forte sulla condizione dei ragazzi. Come fare per combattere pregiudizi e stigma tra i più giovani?

In questo romanzo racconto proprio di come questi ragazzi di paranza usino moltissimo un vocabolario sessista per parlare dei propri stati d’animo e di quello che vivono. Cosa c’è da fare coi più giovani? È sempre un problema di conoscenza, non credo ci sia molto altro. E soprattutto bisogna fare tanta educazione sessuale. Del resto, anche quando andavo io a scuola, l’omofobia era nella sintassi privata dell’aula scolastica. Ed anche io, da giovanissimo, sono stato attraversato da sentimenti omofobici perché vivevo nell’entroterra campano che è ancora più chiuso e difficile. E poi bisogna dire ai ragazzi che è sbagliato identificare le persone con una sola “caratteristica”, ridurre le differenti individualità ad un’unica espressione soggettiva. E infatti, quando sento qualcuno che dice “io ho tanti amici ebrei…” o “io ho tanti amici gay…”, io percepisco il pregiudizio omofobo o antisemita perché chi si esprime in questo modo riduce delle individualità ad un’unica attribuzione che non descrive e non racconta la complessità di una donna o di un uomo. Bisogna smetterla di sintetizzare la complessità dell’altro ad una sola caratteristica o ad un’unica appartenenza.

Quanta omofobia c’è negli ambienti mafiosi?

L’omofobia è molto presente nell’ambiente della criminalità. E il tasso d’omofobia varia da clan a clan. I Casalesi e i Mallardo sono molto omofobi, gli affiliati al clan Giugliano e i Misso lo sono meno: ogni clan ha la propria interpretazione dello stigma omofobico. Tutto ciò che è libertà, libertà sessuale e coscienza del proprio corpo mette in crisi le dinamiche mafiose. Negli anni ’80, non potevi entrare in Cosa Nostra se eri omosessuale, se avevi parenti omosessuali e se i tuoi genitori erano divorziati. Il rigore moralistico, rigore apparente s’intende, di queste organizzazioni è enorme perché si ha paura di qualsiasi cosa sia espressione di libertà.

Ricordi casi in cui i crimini mafiosi avevano anche un elemento d’omofobia?

In diversi casi l’omofobia ha avuto a che fare con omicidi o fatti di mafia e camorra. Ricordo un affiliato in carcere negli anni ’90, a Santa Maria Capua Vetere , impiccato perché in cella aveva avuto un rapporto omosessuale con un ragazzo tunisino e il clan, per la vergogna, l’ha fatto fuori. Spesso ci sono pestaggi e minacce a parenti di affiliati ai clan perché omosessuali. La presenza di persone omosessuali sporca l’immagine del clan. Addirittura, durante un processo, un grande boss della camorra provò a screditare le dichiarazioni di un altro boss del centro storico di Napoli dicendo “signor giudice ma voi date ascolto a questo che ha il figlio ricchione?” e l’altro, “accusato” di non essere attendibile perché padre di un omosessuale, rispose “no, non è vero, non è ricchione, è solo molto sensibile”. Si ha persino paura di pronunciare la parola omosessuale nel mondo della camorra e della mafia.

Nonostante tutto, Napoli è, secondo te, una città accogliente e inclusiva per le persone lgbt?

Secondo me sì. Napoli ha una tradizione di accoglienza ed è una città di mare in cui l’omosessualità ha sempre avuto dignità di cittadinanza. Paradossalmente, a Napoli la parte più chiusa è sempre stata la borghesia mentre il popolo è da sempre naturalmente “poroso” e quindi accogliente.

Lasciamo Roberto Saviano alle domande degli altri giornalisti che, intanto, sono arrivati in teatro. Negli scatoloni di cartone ammonticchiati nel foyer, centinaia di copie de La Paranza dei bambini. Intorno a noi, oltre ai colleghi delle maggiori testate italiane, scorgo tantissimi ragazzi. Sono i ragazzi che portano avanti la lotta quotidiana per un mondo migliore. Sono tutti del Rione Sanità. E nell’era dei social, hanno scelto il teatro per trasformare il proprio futuro e quello di chi crede in una società più giusta.

(Claudio Finelli, responsabile Cultura Arcigay)

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