Giornata della Memoria 2021 – Salvatore Patanè

  

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In occasione della Giornata della Memoria 2021, Arcigay Catania ricorda le vittime dell’omocausto nazista e del confino fascista. Quest’ultimo ha colpito in modo particolarmente duro la nostra città. 

Abbiamo voluto dare voce alle vittime, immaginando che raccontasse in prima persona gli eventi di cui sono protagonist*. Il testo che segue è quindi inventato, ma tutti i fatti narrati corrispondono al vero. 

SALVATORE PATANÈ

Mi chiamo Salvatore Patanè. Sono nato a Catania nel 1915. Ero un sarto, amavo i tessuti e vestivo elegantemente e in modo ricercato. Il mio soprannome era “Cincillà” perché, come questo simpatico roditore, non stavo mai fermo. Mi piaceva viaggiare. Sono stato anche a Palermo e Milano, dove ho avuto le mie avventure… A Catania preferivo partecipare alle cene e alle feste private organizzate dai miei amici. Questo mi permetteva di conoscere uomini e mantenere un certo grado di discrezione rispetto a quelli che si appartavano con i loro amanti nei dintorni dell’arvulu rossu (cioè l’albero grosso, un platano pluricentenario che potete vedere ancora oggi, di fronte agli Archi della marina).

Ci conoscevamo, più o meno, tutti perché frequentavamo le stesse balere.

In piazza Sant’Antonio c’era la più famosa sala da ballo per soli uomini. L’ingresso era gratuito. Ogni ballo costava venti centesimi, quindi con poco era possibile divertirsi per un’intera serata e fare incontri interessanti. Lì, infatti, era possibile incontrare i masculi in cerca di un’avventura con qualche jarrusu (o arrusu).

I “maschi” (masculi in siciliano), nella cultura catanese degli anni trenta, erano gli uomini che assumevano durante un rapporto sessuale il ruolo attivo. I maschi erano liberi di avere rapporti sia con le donne che con altri uomini. Quest’ultimi erano invece chiamati jarrusi (termine catanese per indicare gli omosessuali passivi) e il loro ruolo sessuale era assimilabile a quello femminile.

Il 14 gennaio 1939 inaspettatamente e inspiegabilmente fui arrestato. Una data che non potrò mai dimenticare perché cambiò per sempre la mia vita. Non ero il solo. Nel giro di qualche giorno eravamo circa una ventina. Il 18 gennaio iniziarono gli interrogatori.

Il giorno seguente le sbarre della cella si riaprirono. Pensai che ci stessero liberando, invece ci portarono all’Ospedale Garibaldi e ci consegnarono, a turno, nelle mani del nostro torturatore. Il medico ci fece denudare e dopo un’attenta analisi dei nostri sfinteri emise le diagnosi: “pederastia passiva”. Al termine della visita fummo tradotti nelle carceri di piazza Lanza opportunamente separati dagli altri detenuti.

Con Ordinanza del 2 febbraio 1939 fui condannato a scontare 5 anni di confino.

Per tre mesi fui confinato ad Ustica, qui in particolare passai 5 giorni in cella per aver fatto il barbiere senza licenza né permesso. A maggio fui trasferito a San Domino. Un’isola quasi deserta delle Tremiti. Noi omosessuali eravamo suddivisi in due cameroni che venivano chiusi al tramonto e riaperti la mattina successiva. Dovevamo rispettare tante regole e divieti. Le condizioni igienico-sanitarie erano scarse così come la qualità del cibo. C’era poco lavoro e i prezzi erano alti. La diaria giornaliera di 4 lire poi aumentata a 5 non bastava nemmeno per le spese indispensabili, figuriamoci per mandare soldi a casa. Provai inutilmente a chiedere un cambiamento di isola. Il 7 giugno 1940 fui liberato. La mia restante pena venne commutata in due anni di ammonizione così come aveva predisposto il capo della polizia Bocchini con il benestare di Mussolini. Il gesto non fu dettato da compassione, l’isola infatti doveva essere liberata al più presto per accogliere confinati politici più pericolosi.

Nemmeno un mese dopo il mio rientro a Catania, la città venne bombardata aggiungendo nuovo sgomento alla mia anima già spezzata. Non avevo nessun marchio impresso sulla pelle come era accaduto ai deportati dei campi di concentramento, ma dovevo comunque fare i conti con lo stigma sociale. L’ammonizione peggiorava la situazione. Non ero libero di uscire quando volevo, né incontrare chi volevo perché dovevo notificare ogni spostamento alla questura. Avevo degli orari prestabiliti per uscire e rincasare. Non potevo frequentare abitualmente locali pubblici e mi era assolutamente vietato partecipare a riunioni. Tutto questo non faceva altro che alimentare il discredito che l’opinione pubblica nutriva già nei miei confronti.

Ero stanco. La gente continuava a mormorare. Feci così l’unica cosa che si poteva fare in quegli anni per mettere a tacere le voci. Mi sposai. Quel matrimonio fu vantaggioso sia per me che per mia moglie che era una ragazza madre. Io, lei e suo figlio andammo a vivere nel vecchio quartiere di San Berillo, nel frattempo oltre a svolgere il mestiere di sarto lavorai come commesso in un noto negozio di scarpe. Non ebbi figli e non parlai mai con nessuno del mio passato. Sono morto da oltre 40 anni e ho portato il mio segreto nella tomba, ma oggi è arrivato il momento che venga alla luce.

Nel periodo fascista, il confino era uno degli strumenti principali utilizzati contro chi era ritenuto dalla polizia un “pederasta”. In particolare, in Italia nel 1939 vennero inviati al confino per omosessualità 66 persone, di cui 45 provenivano da Catania. Mussolini in persona aveva dato l’assenso per l’assegnazione al confino dei primi 20 pederasti passivi di Catania (in cui era incluso anche Salvatore Patanè). Gli omosessuali erano ritenuti socialmente pericolosi perché davano scandalo turbando la moralità pubblica e ledendo il prestigio e l’integrità della razza. La repressione colpiva soprattutto gli omosessuali passivi perché minavano il canone di virilità fascista che considerava la passività una caratteristica femminile. Il questore Alfonso Molina, svolse un lavoro quasi maniacale per estirpare la pederastia dal territorio catanese. Le cartelle di questi confinati erano costituite, a differenza di quelle di altre province italiane, da minuziose ricostruzioni biografiche, ritratti psicologici, interrogatori, referti medici, denunce anonime, suppliche ed appelli, lettere e ricorsi ecc. Nel 1940 Molina incluse nella sua crociata anche gli uomini che andavano con gli jarrusi, ma ebbe poco successo perché si trattava di persone abbienti dotate di mezzi in grado di rendere difficile il lavoro di raccolta prove e identificazione da parte delle forze dell’ordine. Alla fine della guerra, il questore Molina fu assolto dall’Alto Commissariato per le sanzioni contro il fascismo e addirittura concluse la sua carriera con due medaglie al valor civile.  

I perseguitati omosessuali e le loro famiglie, invece, si vergognarono di rendere pubblico l’accaduto così la memoria fu occultata per decenni e solo recentemente sta tornando a galla.

Autore: Fabio Cardile

Editing: Vera Navarria

Progetto grafico: Daniele Russo

Fonti: 

– “La città e l’isola” Omosessuali al confino nell’Italia fascista, a cura di Gianfranco Goretti e Tommaso Giartosio, Donzelli, 2006.

– “Il nemico dell’uomo nuovo” L’omosessualità nell’esperimento totalitario fascista, a cura di Lorenzo Benadusi, Feltrinelli, 2005.

– “Il popolo al confino”La persecuzione fascista in Sicilia, a cura di Salvatore Carbone e Laura Grimaldi, Archivio Centrale dello Stato, 1989.

– Ricerche sui registri anagrafici.

– Colloqui con alcuni parenti di Salvatore Patanè.