Di Michele Breveglieri
Responsabile Salute e lotta all’HIV
La nuova campagna di prevenzione di Arcigay ha suscitato molto dibattito. E’ una campagna a soggetto che punta sulla consapevolezza dei rischi e degli strumenti con i loro limiti e le loro potenzialità. Nonostante i temi e le azioni messi a fuoco fossero 9, alcuni hanno suscitato reazioni scomposte e selettive ignorando l’approccio complessivo della campagna.
Il Ministero della Salute, grazie alle sezioni L e M del Comitato Tecnico-Sanitario (di cui anche Arcigay fa parte), ha appena diffuso un Piano Nazionale di lotta all’AIDS, sottoscritto dalle Regioni neanche un mese fa, che detta la linea su come arrivare al fatidico obiettivo globale di UNAIDS di mettere fine all’AIDS entro il 2030. Il documento di policy ministeriale dice: “La complessa natura dell’epidemia implica la necessità di programmi di prevenzione combinati, che prendano in considerazione fattori specifici per ogni contesto, che prevedano anche programmi per la riduzione dello stigma e della discriminazione. (…) I programmi combinati possono essere implementati a livello individuale, di comunità e della popolazione generale e devono essere basati su evidenze in merito all’andamento dell’epidemia”. L’intervento combinato implica, tra le altre cose e oltre ai preservativi, anche “interventi farmacologici: strategie di prevenzione basate sull’utilizzo dei farmaci antiretrovirali (PrEP, PEP, TasP)”. Sugli MSM (uomini che fanno sesso con uomini), in particolare e tra le altre cose: “Favorire l’approccio di “prevenzione combinata” mirata che includa PrEP, TasP e PEP, Programmi community-based di offerta di test rapidi HIV ed IST, vaccinazioni per MSM nei luoghi frequentati, secondo linee guida vigenti”. Tutto questo oltre al preservativo.
Curioso che a fare la guerra ad una strategia efficace per fermare l’HIV non siano oggi le istituzioni, storicamente latitanti in Italia, ma pezzi di comunità e improvvisati esperti della prevenzione. Curioso perché dovremmo lavorare tutti e tutte invece per ottenere l’implementazione reale di questa strategia su cui il nostro Paese è in drammatico ritardo, ma che si sta rivelando come l’unica strada al momento efficace per piegare l’epidemia. Ma su questo curioso paradosso torneremo alla fine.
Il preservativo è lo strumento in assoluto più versatile e utile: lo diciamo, ma senza nasconderci la realtà.
Che il preservativo sia in assoluto lo strumento più versatile e utile lo diciamo da sempre e lo diciamo anche con questa campagna. Esplicitamente. E’ l’unico che protegge dall’HIV e anche da molte altre infezioni sessualmente trasmissibili nei rapporti penetrativi (non necessariamente quelle da contatto però, come l’HPV). E’ l’unico utilizzabile per proteggere i rapporti orali, per sifilide, gonorrea e clamidia, ma anche se ci si impegna per epatite A (se lo si usa come mezzo di barriera, tagliandolo come un lenzuolino, tra la bocca e l’ano). Il preservativo usato correttamente e sempre, col solo rischio residuale di rottura, ha una protezione stimata attorno al 99,5%.
Ma da parte nostra riteniamo più responsabile affrontare la realtà, ovvero che c’è un’ampia comunità che non usa costantemente il preservativo e che ribadire allo sfinimento una norma non cambierà la situazione. La cambierà per alcuni, ma per molti non significativamente. Se non fosse così, avremmo avuto una curvatura drastica dell’epidemia molto tempo fa. Ma non è così. Anzi.
Per molte persone il preservativo è facilmente utilizzabile. Non è un problema. E molte lo usano sempre, almeno nei rapporti occasionali. E’ bene che continuino a farlo, perché è lo strumento in assoluto migliore sul piano dell’efficacia ad ampio spettro. Lo diciamo anche nella campagna e ne distribuiamo a pacchi. Ma si deve sapere che il vantaggio che se ne trae è strettamente correlato a questa “costanza”. E anche questo lo diciamo. Usarlo solo qualche volta e non sempre, diventa un problema anche in termini di percezione soggettiva del rischio: pensare di essere “a posto” solo perché lo si usa “quasi sempre”. Lo studio EMIS nel 2010 su più di 16.800 MSM in Italia ci disse che tra coloro che avevano fatto sesso con partner occasionali nell’ultimo anno, il 40,4% non aveva usato il preservativo nel sesso anale almeno una volta con partner occasionali. Il 60% circa dunque dichiarava un uso costante. Ma che fare degli altri?
Il problema è che la gestione individuale del rischio non avviene in un contesto teorico o di laboratorio, ma in un contesto pratico di vita reale in cui l’aderenza alla “tecnica” è tutto (perché sempre di tecniche medicalizzate si tratta, che sia un mezzo meccanico di barriera come il preservativo o mezzi farmacologici come PrEP e TasP). L’aderenza 100% al preservativo sempre e comunque è purtroppo solo teorica e la norma sociale sul suo uso è talmente forte che si fa fatica pure a stimare la sua reale “violazione”, come si può leggere in questa pagina di CDC (Center for Desease Control) sulla comparazione tra strategie di riduzione del rischio nel sesso anale tra MSM. CDC riporta uno studio pubblicato nel 2015 che ha analizzato i dati degli studi EXPLORE e VAX004 stimando l’efficacia del preservativo nella vita reale in un sottogruppo di persone che dichiaravano un uso costante al 100% del preservativo nel sesso anale: efficacia del 70% rispetto al completo non uso (si può vedere una discussione anche qui). Cioè ci sono state delle infezioni anche in quel sottogruppo.
Certamente questo risultato non può essere dovuto al preservativo in sé, che lo ribadiamo ha una efficacia oltre il 99% in condizioni di laboratorio, ma è probabilmente dovuta al fatto che alcuni potrebbero aver dichiarato un uso costante per mera “desiderabilità sociale”, cioè per compiacere la “norma sociale” sull’uso del preservativo di fronte ai ricercatori. Ma se nemmeno in uno studio la persona riconosce la propria incostanza e dunque il proprio grado di rischio, e finisce per compiacere una norma solo “a parole”, cosa dovremmo pensare della vita reale? Si spiega allora perché il preservativo abbia contenuto l’epidemia, ma non l’abbia piegata.
Non solo. Da una parte l’analisi degli studi sopra citati non mostra nessuna differenza statisticamente rilevante tra uso “qualche volta” e non uso rispetto all’esito di rischio. Dall’altra mostra che sul lungo periodo la strategia ha delle difficoltà: su 3 anni solo il 13% dei partecipanti dichiarava un uso costante al 100% nel sesso anale, mentre il 95,5% dichiarava di averlo usato almeno una volta. L’incostanza è dunque il comportamento più costante. Si può trovare una discussione sul tema qui.
E’ allora scorretto assumersi la responsabilità di proporre un’alternativa eventuale almeno ad una parte di quel 40,4% di MSM identificati dallo studio EMIS nel 2010? Secondo noi no. C’è chi preferisce continuare a sbattere il muso contro la realtà ribadendo principi astratti. Noi no. Per noi la realtà ha bisogno di risposte concrete e realistiche.
Se si vuole familiarizzare un po’ col tema della riduzione del rischio e si sa l’inglese, si può usare questo interessante strumento di valutazione del rischio, proprio di CDC: https://wwwn.cdc.gov/hivrisk/estimator.html
La paura della TasP, ovvero la paura del sieropositivo “a prescindere”.
Prima di venire alla PrEP, parliamo di TasP (terapia come prevenzione). E’ la strategia che si basa sul fatto che una persona con HIV che segue una terapia costante e ha livelli di virus nel sangue “non rilevabili” o al di sotto delle 200 copie non trasmette il virus. Nella stessa pagina di CDC citata sopra, vediamo i dati del 2011 dello studio HPTN 052 che parlavano di una riduzione del 96%. Ma poi la TasP ha dimostrato, con la prosecuzione di quello stesso studio e con altri studi, un’efficacia praticamente totale. Zero rischio. Due studi lo hanno ribadito, “Opposites Attract” e “Partner”, di cui gli ultimi risultati sono arrivati tra il 2016 e il 2017. Tra i due studi, su oltre 40.000 rapporti sessuali senza preservativo in coppie gay siero-discordanti (uno HIV positivo, l’altro HIV negativo) ci sono state ZERO infezioni da parte del partner con HIV. Ci sono state infezioni, ma filogeneticamente non provenienti dal partner (venivano dall’esterno della coppia). La presenza di altre IST nella coppia non ha cambiato nulla.
Le obiezioni alla TasP lasciano veramente di stucco. E’ chiaro che non usare il preservativo in una coppia siero-discordante lascia aperto il tema delle IST (se la coppia non è monogama), come è chiaro ovviamente che non si può con leggerezza andare “sulla fiducia” in rapporti occasionali con partner con HIV, perché non si può avere il controllo dell’effettivo stato clinico della persona. Infatti non è questo che diciamo, nemmeno nella campagna. Ma perché non considerarla un’opzione naturale per una coppia che si suppone costruita sul dialogo e la condivisione, se questa sente il bisogno di non usare il preservativo? Nello studio “Opposites Attracts” la non rilevabilità è rimasta un dato costante nel 98% dei casi, il che non stupisce visto il doppio valore motivazionale che ha per una persona sieropositiva il fatto di avere una lunga vita garantita e di non essere nemmeno infettiva grazie alla terapia. La viremia di routine viene controllata almeno ogni sei mesi. L’obiezione sulla possibile carica virale diversa tra sangue e sperma è mal riposta: gli scostamenti ci sono, ma oltre al fatto che non sono particolarmente significativi, i due studi suddetti hanno trovato ZERO infezioni con una viremia nel sangue al di sotto delle 200 copie. Che nello sperma le copie fossero di più o di meno, il risultato è comunque ZERO.
Il 27 settembre 2017 CDC, che è notoriamente un’istituzione con un approccio conservativo su queste questioni, ha ufficialmente detto: “quando la terapia antiretrovirale risulta in soppressione virale, definita come meno di 200 copie/ml o non rilevabile, previene la trasmissione sessuale dell’HIV. (…) Questo significa che le persone che prendono la terapia quotidianamente come prescritto e che raggiungono e mantengono una carica virale non rilevabile hanno effettivamente nessun rischio di trasmettere sessualmente il virus al partner HIV-negativo”.
La rappresentazione della persona con HIV come potenzialmente pericolosa “a prescindere” dice molto più del bisogno di non mollare una paura irrazionale e una distanza rassicurante tra sé e il sieropositivo, che della volontà di fare prevenzione. La paura è legittima, ma rimane irrazionale. Ed è anche peggio da quelli che “hanno tanti amici sieropositivi”.
La PrEP è incontestabilmente efficace per l’HIV. E l’aderenza è tutto, come col preservativo.
La PrEP, lo abbiamo scritto anche nella pagina della campagna, va presa su prescrizione medica e dopo aver fatto alcuni esami iniziali: un controllo ai reni, ad esempio, è d’obbligo, così come il test dell’HIV. Il medico infettivologo ha tutto il modo di valutare l’effettivo bisogno di PrEP, spiegare alla persona gli effetti collaterali, prescrivere gli esami che servono e la posologia necessaria per una PrEP efficace. La persona in PrEP poi farà controlli periodici per verificare che tutto vada bene rispetto al suo stato di salute e agli eventuali effetti collaterali. In questi controlli, anche per le linee guida italiane che stanno per essere definite, ci sono anche i controlli per le altre IST.
Questa è l’indicazione che diamo sulla PrEP nella pagina della nostra campagna, ribadendo anche che la PrEP protegge solo dall’HIV e NON dalle altre IST (tanto che suggeriamo di fare controlli periodici). Ma mentre noi ci affanniamo a chiudere la stalla rinviando a procedure corrette per la sua assunzione, i buoi sono già scappati. Gli MSM prendono già la PrEP, senza prescrizione, senza accompagnamento e via internet, anche se è illegale o ai limiti della legalità. Lo stigma sulla PrEP e la mancanza di accessibilità regolata stanno producendo già quello che i francesi chiamavano qualche anno fa (prima di introdurla con una regolamentazione) “PrEP sauvage”, PrEP selvaggia.
Dopodiché, l’uso corretto e secondo prescrizione di PrEP protegge fino al 99%. Sempre partendo dalla pagina di CDC, si parla di una protezione del 92% secondo lo studio iPrEX pubblicato nel 2010, percentuale relativa a quei soggetti che quantomeno avevano farmaco nel sangue (indipendentemente dalla quantità). Ma analisi successive hanno dimostrato che la protezione può arrivare al 99% coi livelli di farmaco di un’aderenza quotidiana. In iPrEX OLE, tra coloro che usavano la PrEP con una concentrazione nel sangue compatibile con 4-7 pillole a settimana nessuna infezione si è verificata (vedi qui il video della presentazione alla conferenza mondiale AIDS del 2014). Si trova una sintesi di iPrEX e iPrEX Ole qui. Infine al CROI 2015 sono poi stati presentati i dati di IPERGAY e di PROUD: entrambi gli studi hanno evidenziato una protezione media dell’86%. Protezione media significa sì che qualche infezione c’è stata nei due gruppi studiati, ma sia in Ipergay sia in Proud gli unici partecipanti che si sono infettati avevano in realtà smesso di usare la PrEP. Sul piano dell’efficacia di comunità, dove la PrEP è già uno strumento di prevenzione si sta assistendo a cali significativi delle nuove infezioni di HIV tra gli MSM. La PrEP funziona e usata correttamente è una ulteriore arma in nostro possesso nella lotta contro il diffondersi dell’epidemia di HIV.
Per gli MSM funziona particolarmente bene anche perché ha una performance migliore nel sesso anale (il farmaco si concentra di più in quei tessuti): è una delle ragioni per cui gli MSM sono un target privilegiato per questa strategia. E’ evidente però che, anche per la PrEP, l’aderenza è tutto. Servono almeno 4 pillole a settimana per una protezione adeguata negli MSM.
L’obiezione in voga secondo cui una persona che non usa costantemente il condom non userebbe nemmeno costantemente la PrEP è debole, perché le due situazioni e il loro vissuto soggettivo sono incomparabili. Interrompere il momento del sesso e del trasporto erotico per usare un mezzo di barriera e prendere una pillola di routine in un momento totalmente diverso da quello del sesso sono due situazioni incomparabili e solo soggettivamente apprezzabili come più o meno facili. Ugualmente, anche l’obiezione secondo cui la PrEP sarebbe pericolosa perché “uno non può sapere se l’altro usa veramente o meno la PrEP” è mal posta: nessuno infatti ha mai detto che ci si può basare su quanto l’altro dice di sé, soprattutto nei rapporti occasionali. In generale i mezzi di prevenzione si scelgono per sé. “Io” uso la PrEP e allora sono protetto dall’HIV, non l’altro usa la PrEP e allora sono protetto. Sono due messaggi diversi e il secondo non è il nostro, esattamente come diciamo che non ha senso chiedere “sei sano?” in un rapporto occasionale.
Per quanto riguarda gli effetti collaterali, la maggior parte delle persone non ha effetti collaterali, ma alcuni sono stati riscontrati negli studi clinici (si trovano commenti alle pagine linkate sopra). Nello studio Proud 13 persone su oltre 500 hanno interrotto lo studio per effetti collaterali: 2 per aumento della creatinina (quindi problemi ai reni), 5 per nausea o diarrea, 2 per dolori alle articolazioni e 2 per mal di testa. Tutti tranne 2 però, hanno poi ricominciato l’uso della PrEP senza ulteriori problemi. In iPrEX le uniche differenze significative ci sono state con nausea o mal di testa o perdita di peso, sempre in una minoranza del campione, sempre inferiore al 5%, scomparse dopo un mese. Lo 0,3%, invece, aveva avuto un leggero incremento di creatinina (quindi sempre reni), regredito però non appena smessa la PrEP. 4 su 5 che avevano avuto questo effetto, non lo hanno poi più avuto alla ripresa della PrEP. Quando si parla di effetti collaterali bisogna considerare anche che la PrEP è certamente tanto più efficace quanto più viene presa nelle dosi adeguate, ma non è detto che l’uso che se ne fa sia effettivamente così costante nell’arco di una vita e dunque gli effetti collaterali a lungo termine cumulativi: perché magari si intervalla con il preservativo, oppure perché si entra in una relazione stabile, o per mille altre ragioni per cui la si interrompe. La posologia sperimentata con lo studio Ipergay, peraltro, consente anche di fare le proprie valutazioni in merito ad un uso più intermittente e “al bisogno”, che si è dimostrato ugualmente efficace se fatto nel modo giusto.
La prevenzione combinata come modello di controllo dell’HIV e delle altre IST
Non ha alcun senso che una persona che usa davvero sempre e senza problemi il preservativo prenda anche la PrEP: un messaggio del genere, paradossalmente, alimenterebbe l’idea che il condom non protegge. Ricorda un po’ l’uso ansioso del doppio preservativo. E’ chiaro che a prendere la PrEP sarà chi fa più fatica a mantenere una costanza nell’uso del preservativo o chi tende a non usarlo proprio. La si consiglia proprio per queste persone, per cui può diventare uno strumento complementare o alternativo. Facendo un bagno di realtà prendiamo atto del fatto che alcuni già oggi hanno bisogno di uno strumento temporaneamente o stabilmente alternativo. Dunque la complementarietà, in questo caso, fa comunque sempre riferimento ad una capacità sostitutiva della PrEP quando non c’è condom.
Tant’è vero che in tutte le linee guida sulla PrEP, gli elementi chiave per accedervi sono proprio un uso non costante del preservativo, l’aver avuto IST (infezioni sessualmente trasmissibili) recentemente o aver usato la PEP recentemente. Arcigay nella sua campagna non ha fatto altro che dire quel che è normalmente fatto: hai problemi ad usare il preservativo e non lo usi costantemente? Valuta se usare la PrEP.
Ci sarà allora un aumento di altre IST dovuto a comportamenti sessuali meno protetti da preservativo? In realtà negli studi citati, questo non si è osservato. Tuttavia in diversi contesti in cui la PrEP è in voga da anni (soprattutto USA) si è osservato accanto ad una diminuzione di diagnosi di HIV un aumento di altre IST, peraltro tutte curabili. Per l’aumento dei test o per l’abbandono del preservativo? Non è chiaro. Ma questo è anche il motivo per cui si sono cominciate a prendere delle contromisure che stanno dimostrando di avere effetti concreti anche sull’epidemia di IST in controtendenza rispetto alle aspettative. Paradossalmente, una strategia accorta e veramente “combinata” intorno all’uso della PrEP può portare anche un calo di altre IST: perché i controlli e la cura di queste ultime sono costanti.
Lo hanno dimostrato gli inglesi i cui risultati concreti della combinazione Test+TasP+PrEP+preservativo sono straordinari e dovrebbero essere di ispirazione per tutti. Non solo in alcune aree di Londra stanno piegando l’epidemia di HIV tra gli MSM con un calo del 29% mai osservato nella storia dell’epidemia, non solo la strategia sta funzionando in tutto il paese con una riduzione del 18% di nuove infezioni in tutta la popolazione (21% negli MSM), ma nella clinica principale e più organizzata di Londra hanno anche osservato una diminuzione di diagnosi di gonorrea da quando gli MSM hanno cominciato ad usare la PrEP. Il risultato sull’HIV si spiega per la forte e decisa strategia di prevenzione combinata che si è messa in campo in UK e soprattutto a Londra dove la strategia è stata massiccia: test HIV quasi quadruplicati tra gli MSM (37.224 circa nel 2007 contro 143.560 nel 2016), test ripetutamente offerti a chi ha una vita sessuale più attiva e a rischio, terapia alla diagnosi per abbattere la viremia e mettere sostanzialmente in TasP tutti i diagnosticati con HIV, e infine distribuzione di condom e accesso alla PrEP. Ma secondo i ricercatori il calo di diagnosi di gonorrea nella più organizzata clinica di Londra si spiega invece probabilmente con un altro fatto, legato paradossalmente proprio alla PrEP: chi usa la PrEP fa controlli periodici anche delle IST (almeno ogni 6 mesi), e se risulta infetto viene subito curato. Questo spezza le catene epidemiche con efficacia ineguagliabile: senza i controlli indotti dai programmi di adesione alla PrEP, queste catene andrebbero avanti anche per anni.
In un contesto come quello italiano privo di un approccio di salute sessuale, questo elemento è ancora più rilevante: in molti territori fare un test sifilide o controlli per la gonorrea gratuitamente è complicato, con il risultato che le catene epidemiche corrono indisturbate. Per questo anche in Italia questo aspetto va implementato. Per questo uno dei soggetti della campagna di Arcigay sono anche i controlli periodici delle altre IST e i vaccini dove possibile.
CDC ha recentemente assunto proprio questa posizione, a seguito anche di uno studio basato su modello matematico secondo cui l’assunzione della PrEP, se accompagnata da controlli ogni 6 mesi o ogni 3 (come da protocollo di assunzione che avverrebbe anche in Italia), porterebbe ad una riduzione di gonorrea e sifilide (si veda anche discussione qui).
La prevenzione non è la gendarmeria del sesso
Dopo essere andati nel merito dei messaggi contestati, è bene fare una valutazione di fondo. Perché in questo dibattito non c’è solo una discussione sugli strumenti di prevenzione, ma una diversità di approcci culturali di fondo. Per Arcigay la prevenzione è intervento pragmatico sulla realtà concreta con strumenti specifici che diano risposte a quella realtà, ed è anche intervento sulla consapevolezza individuale e comunitaria nel rispetto dell’autodeterminazione della persona. Per altri invece la prevenzione è imperativo che possiamo tranquillamente definire morale e normativo, è un principio astratto che va ribadito idealisticamente a prescindere. Gli strumenti della prevenzione, per questo secondo approccio, sono simulacri ideali e normativi. Non importa che dietro ci sia o meno una presa efficace sulla realtà. Importa ribadirli a prescindere.
Come la nostra comunità sia giunta a questo punto lo sappiamo, ma parlarne è opportuno. La diffusione e il radicamento di un’aspettativa normativa sul sesso buono, ovvero l’uso dovuto del preservativo a individuare non solo una pratica di prevenzione, ma anche un sesso “ buono, giusto e intelligente” e indirettamente la persona che lo fa, ha salvato molte vite. Fino al 1995 c’era un unico modo per non infettarsi e a quei tempi morire: usare il preservativo, o astenersi, o essere monogami. In una comunità abituata a vivere gioiosamente il sesso, e che aveva fatto della liberazione sessuale il suo volano fino all’avvento dell’AIDS, l’uso del preservativo era il compromesso normativo accettabile e l’unico mezzo efficace per salvarsi la vita. Di fronte ad un’ecatombe, portare la gente ad un reciproco controllo sull’uso di un mezzo di barriera (così si chiama, tecnicamente) era l’ultima spiaggia per la sopravvivenza di una comunità. Poi dal 1995 in poi sono arrivati i farmaci antiretrovirali altamente efficaci, sono crollati i casi di AIDS ma non le infezioni da HIV, ed è cominciato il dibattito sugli effetti non voluti della “salvezza”: ovvero l’archiviazione della paura e se fosse controproducente dire che “non si muore più”. Al di là del fatto che allora come oggi si muoia ancora (ma per motivi diversi e in numeri molto ridotti dovuti per lo più al ritardo irrecuperabile della diagnosi, figlia peraltro anche della paura del test), il punto è che per molti commentatori del cambiamento storico introdotto dalla medicina nel 1995 la paura doveva rimanere l’elemento necessario e non abbandonabile della prevenzione. Con una contraddizione peraltro latente e sempre più problematica da gestire negli anni: come fai a dire ad una persona di fare il test serenamente, se le hai instillato il seme della paura del risultato e quella paura ti è funzionale al tuo discorso di prevenzione? Non a caso, soprattutto dal 2000 in poi, i grossi temi della prevenzione sono stati per lo più due: come facciamo a dire alla gente di farsi il test se la spaventiamo e come facciamo a farle erotizzare un mezzo di barriera come il preservativo? Lo stigma verso la persona con HIV non è stato per molti anni nemmeno in agenda. Nel 2008 è arrivato lo statement svizzero sulla TasP, il primo in assoluto. Orrore e paura persino nell’ambiente medico scientifico sulla “pericolosità” del dire che una persona con HIV e carica virale non rilevabile non trasmette il virus. La storia e gli studi hanno poi dato ragione agli svizzeri, e la comunità medico-scientifica si è riallineata. Ma, paradossalmente, sembra proprio parte della comunità gay a rimanere “sgomenta”. Poi è arrivata la PrEP, e nel 2012 negli USA si conia pure il termine “Truvada Whores”, le puttane del Truvada, per stigmatizzare le persone che irresponsabilmente si ostinano a rompere un codice normativo comunitario sul sesso, e lo fanno pure consapevolmente cercando alternative per fare “il sesso che vogliono”.
Elogio della paura, attribuzione di stigma e vergogna sono gli elementi alchemici culturali che vediamo tornare oggi in vari commenti e varia forma. Dietro c’è la paura, anche collettiva, che crolli una norma reciprocamente e diffusamente riconosciuta, che ha fatto da barriera alla morte negli anni bui. Poco importa che l’ampliamento combinato dello sguardo e degli strumenti oggi sia più efficace sul piano del controllo dell’epidemia e che i dati dimostrino incontestabilmente che il preservativo ha contenuto l’epidemia, ma non l’ha piegata, perché la realtà delle dinamiche epidemiche è un po’ più complicata della ripetizione di una norma. Poco importa che la realtà sia una cosa diversa dal racconto che se ne deve fare. La prevenzione è e deve restare una questione normativa, un “dover essere” di “sesso buono e giusto” e non si può lasciarla alla consapevolezza informata e all’autodeterminazione dei singoli. Il mezzo è diventato il fine. A prescindere. Persino il “piacere” soggettivo è diventato alternativamente o un elemento irrilevante nel dibattito sulla prevenzione (“poco importa che ti piaccia o no, questo devi fare”), o un elemento stigmatizzabile se soggettivamente sentito senza preservativo (il dibattito sulle “truvada whores” insegna), o infine un elemento normativo in sé (non può non piacerti anche con il preservativo).
Eppure anche per l’OMS la salute sessuale non è più solo una questione di assenza di malattia nel sesso. E’ anche una questione di benessere complessivo nel sesso e nel perseguimento del piacere, che include anche gli strumenti per evitare malattie. Gli strumenti devono essere funzionali al benessere, non viceversa.
Uscire da un racconto trentennale di paura che a sua volta ha prodotto tanto stigma non è semplice. Ma viviamo in un momento storico in cui i mezzi sono aumentati e sappiamo molto più dell’epidemia, di HIV innanzitutto, ma anche delle altre IST. Entrare in un racconto di consapevolezza su tutti i rischi e su tutti i mezzi che si hanno a disposizione in base ai propri bisogni, a partire dal preservativo come mezzo più poliedrico, ma senza nascondersi nulla, è ancora meno semplice. Molti di noi, la maggior parte, stanno bene tranquillamente senza PrEP e usando il preservativo, e preferiscono non rischiare una sifilide e punture dolorosissime per curarla. Ma non siamo tutti uguali. Ne prendiamo atto.