Un volo da San Paolo per l’Europa rimandato.
Una sigaretta chiesta da un bambino cresciuto troppo in fretta.
Una notte trascorsa in uno dei sobborghi più violenti e degradati della grande città brasiliana. Nel corso della quale Sabina riporta alla mente i ricordi più belli e significativi della propria esistenza prima di lasciare la sua terra: i solidi principi dell’umile famiglia di origine italiana; la formazione universitaria come pedagoga; il grande amore per i bambini e per il proprio Paese.
Un romanzo forte, sincero, umile, ma anche coraggioso e a tratti sconvolgente, per comprendere che nulla di quanto si vuole lasciare alle spalle è davvero dimenticato per sempre. E che tornare significa credere fermamente che niente, nel corso della vita, accade per caso.
Il secondo romanzo di Gian Luca Mario Loncrini, reale, provocatorio, ma anche sensibile ai mille problemi che negano l’infanzia a molti bambini di un Paese che ancora non ha trovato il modo di riscattarsi e non essere più considerati terzomondista, rivela realtà agghiaccianti che molti conoscono solo attraverso le censurate cronache che i media propongono.
Senza dimenticare che gli umili, gli emarginati, quelli che convivono coi ‘buoni’ all’ombra degli edifici da loro abitati, vivono i loro sentimenti con la stessa intensità di coloro che popolano il mondo sano, per molti aspetti più marcio e corrotto del loro.
Saudade – Una ragione per tornare è la seconda fatica letteraria di Loncrini. Il romanzo è semplice, complesso e profondo. Semplice per la vicenda narrata, comune a molte persone impegnate a sopravvivere o a emergere in qualche modo, immerse nei loro ricordi, protese verso i loro sogni. È una storia italiana (veneta) e brasiliana, una storia italo-brasiliana.
Complesso per l’ambientazione in un Brasile “terra di contrasti e di ingiustizie”, per la forte descrizione di due favelas, “mondo dei disumani”: quella del Morro di Mocotó dove vive la famiglia degradata e assente di Marcelo, e quella di Heliópolis, animata dalla famiglia povera ma allegra di Edmar. Profondo perché il testo è un intreccio di dialoghi che scavano nella vita difficile, ferita, a volte tremenda, dei protagonisti e di un mondo grande e terribile.
Imperniato su Sabina e sui suoi piccoli amici, il testo è costruito a strati interdipendenti: la perdita dell’aereo verso l’Italia, la lunga attesa, la partecipazione serale alla vita di una favela, il ricordo di un’altra favela, la memoria della propria famiglia emigrata, la narrazione dello studio universitario e dei progetti educativi, il protagonismo di due bambini, l’attesa di una vita futura con Francesco, l’idea di ritornare. L’attesa di un volo posticipato per un disguido tecnico è, così, colmata dal sogno di un futuro carico di saudade, cioè di una sensazione intensa e struggente, insuperabile, spina perenne di inquietudine e di ricerca.
Il romanzo cammina avanti e indietro in equilibrio sul crinale problematico di situazioni contrastanti: normalità e diversità, legalità e illegalità, razionalità e passione, memoria e futuro. Tra biografia e storia. Tra psicologia e sociologia. Tra cronaca e poesia. Alcuni fili robusti attraversano e collegano la trama di Saudade.
Il primo è quello della comunicazione costante. L’idea della vita come colloquio, come continuo apprendimento della “prima grammatica umana”: quella della comunicazione come tessitura di buone relazioni. È raro trovare racconti così ricchi di dialoghi, di sguardi, di gesti, di scambi comunicativi. Di parole che si fanno carne e volto.
Il secondo filo riguarda l’importanza della scuola incarnata nei volti e il valore dell’educazione permanente. Alcune osservazioni dei protagonisti fanno rimbalzare nella mente idee e pratiche del metodo del pedagogista brasiliano Paulo Freire, autore della “pedagogia degli oppressi” e promotore di un’educazione come “presa di coscienza” e come “pratica di libertà”. Il coinvolgimento di Sabina nel suo lavoro formativo ricorda la famosa frase di Freire : “nessuno educa nessuno, nessuno si educa da solo, ci si educa nella relazione, nella comunione”. È inevitabile richiamare alla mente sia la lezione di Lorenzo Milani, basata sulla “conquista della parola”, chiave di ogni educazione alla cittadinanza responsabile, sia l’intuizione educativa di Pier Paolo Pasolini per il quale il lavoro di un vero insegnante costituisce un’azione “divina”, un grande “atto d’amore”. Sotto pelle nel testo loncriniano, ferve l’intuizione di una cittadinanza universale costruita per mezzo di percorsi formativi fondati sul rispetto delle persone, con tutte le loro “differenze” animatrici dell’unica plurale famiglia umana.
Il terzo filo, avvolgente tutte le esperienze raccontate, potrei chiamarlo “circolo virtuoso del tempo”. Il romanzo vive di rimandi, di richiami, di rievocazioni e di evocazioni, di intrecci permanenti tra passato, presente e futuro. Nel vivo dei suoi ricordi, Sabina attende il viaggio verso “il mondo da cui sono venuti i genitori dei genitori dei nostri genitori”, verso la terra del suo passato dove realizzare il sogno d’amore con il mite e attivo Francesco, uomo del suo futuro, disponibile comunque a ritornare nel suo splendido e tormentato Brasile.
Saudade accoglie una “ricapitolazione” dove memoria e speranza si mescolano in modo dolce e doloroso. Loncrini maneggia con freschezza un materiale sociale e umano incandescente. Egli tratta con tocco gentile temi spaventosi: penso alla presenza della criminalità e allo spaccio di droga nelle favelas (con gli aquiloni costretti a diventare utili avvertimenti per i criminali), all’uso frequente delle armi da fuoco (le statistiche dicono che tra il 2000 e il 2006 solo a Rio de Janeiro è stato commesso un omicidio ogni tre ore e che le vittime delle armi sono 40.000 l’anno soprattutto tra i giovani), al dramma del popolo bambino (bruciante è il veloce richiamo ai bambini schiavi che lavoravano nudi nelle miniere di Ouro Preto). Il suo narrare evoca motivi di speranza nella disperazione più cupa.
Per lui, il disagio e il dramma del degrado possono diventare occasione di riscatto. Anche nei luoghi di “aria fetida”, di “sudore, piscio e muffa”, di sporcizia e di malattie, di ladri, di violenze, di paure, di soprusi, di pistole, di balas perdidas possono affacciarsi un moto affettuoso, un sorriso, un gesto utile, uno sguardo penetrante. Anzi, nella “piccola fetta marcia di mondo” si può addirittura avvertire “un’esplosione di gioia nel petto”. Può erompere, soprattutto, il bisogno di educazione nel senso letterale della parola, quello di “uscita” o di “liberazione” dalla schiavitù e dalla miseria.
Saudade è il romanzo della fiducia nella vita, della voglia di vivere e di cambiare. Tale fiducia, espressa in modo ora serio e tragico, ora leggero e familiare, ora ironico e struggente, è incarnata prevalentemente nelle donne e nei bambini, veri protagonisti dell’opera. Ecco perché, nonostante tutto, Saudade è un romanzo di speranza. Essa si identifica con le donne e i bambini immersi in “un posto di merda” dove emerge sempre il positivo perché “il buono esiste anche qui”, a patto che se ne prenda coscienza e venga maieuticamente estratto da chi si prende cura di chi soffre in concreto, proprio di “quel bambino”: “è lui che voglio salvare!”. La giovane protagonista lotta per il piccolo, per il suo “non essere ingoiato, masticato, triturato, digerito e cagato fuori dal Morro come gran parte dei bambini”. Come gran parte del Brasile, possiamo aggiungere, visto che l’età media tra tutti i 190 milioni di abitanti è di 28 anni!
Nel magma esistenziale e sociale descritto da Loncrini vibra il profilo della bellezza nascosta. Quella dichiarata nella famosa canzone di Fabrizio De Andrè (“Via del Campo”) che esclama “dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior”. O quella di Umberto Saba (“Città vecchia”) che vede “l’infinito nell’umiltà”, che avverte una presenza divina nelle “creature della vita/ e del dolore” al punto tale da sentire il suo pensiero “farsi più puro là dove più turpe è la via”.
Se nonviolenza vuol dire anche gandhianamente “forza della verità”, lo stare afferrati alla verità della vita da sanare e curare, Saudade è un romanzo della nonviolenza intesa come passione per l’esistenza, forza di liberazione, trasformazione dei rapporti umani.
Non esiste nel testo alcun compiacimento verso il male descritto, ma la fatica e la gioia di emergere. L’indignazione trattenuta per la miseria e la degradazione umana diventano stimolo alla promozione sociale, ricerca di una novità di vita. Tale apertura di orizzonte è possibile se qualcuno si prende cura dei piccoli, se ci si prende a cuore i poveri e gli umili. In breve, se si diventa operatori di pace e di bellezza. Se si pensa e si agisce come Sabina e Francesco e tante donne del romanzo.
Helder Camara, arcivescovo brasiliano di Recife, famoso per il suo impegno sociale negli anni ‘60 e ‘70, uno dei miei maestri spirituali, diceva: “È grazia divina cominciare bene. È grazia maggiore continuare il cammino. Ma la grazia delle grazie sta nel non arrendersi mai”. Il pensiero vale per i protagonisti del romanzo, per il suo autore, per noi tutti.