A quota 25 ci siamo arrivati e le nozze d’argento sono state celebrate con discreto sfarzo. Di cosa stiamo parlando? Non dell’anniversario di matrimonio tra due persone dello stesso sesso (magari!!!) nella nostra città ma del 25° TORINO GLBT FILM FESTIVAL.
Ma cosa è accaduto di bello in questa edizione? Andiamo in ordine alfabetico? Di importanza? O a casaccio?
Ok, allora diciamo: film a go go da ogni latitudine di entrambi gli emisferi; un afflusso di pubblico come non si vedeva da tempo; pellicole interessanti di ogni durata e genere; una selezione tra le migliori produzioni degli ultimi 25 anni, film che fanno ormai parte della storia e degli animi degli spettatori di questa kermesse a tematica LGBT che, gradino dopo gradino, ha conquistato il suo giusto spazio tra i propri omologhi nel mondo.
E poi cos’altro? Retrospettive: l’opera (quasi) omnia della regista Patricia Rozema autrice di cult lesbici come Ho sentito le sirene cantare e When Night Is Falling, canadese, ex assistente di Cronenberg (ma con una sensibilità e un occhio cinematografici totalmente diversi da quelli del suo connazionale); quella su Maria Beatty e quella su Holly Woodlawn (icona warholiana).
Nuove sezioni (Binari) e molte anteprime (tra cui, quella mondiale, della miniserie tv Mary Lou dell’israeliano Eytan Fox, un autore che al festival è ormai di casa).
Ospiti e giurie di pregio: oltre agli stessi Rozema e Fox, anche gli scrittori Ivan Cotroneo (La kryptonite nella borsa) e Peter Cameron (Un giorno questo dolore ti sarà utile); il regista James Ivory (Maurice e Camera con vista), il primo a ricevere il Premio Dorian Gray, nuova idea di quest’anno degli organizzatori di Da Sodoma a Hollywood che hanno deciso di premiare, d’ora in avanti, le personalità che più si sono distinte nel portare avanti, promuovere (e combattere per) le tematiche LGBT; Claudia Cardinale che ha portato con sé una ventata del “cinema che fu” (può vantare di aver lavorato con registi del calibro di Visconti, Fellini, Leone, Herzog) e che con l’età (ha compiuto gli anni nel giorno stesso dell’inaugurazione del Festival) ha perso un po’ della sua ieraticità ma è diventata sicuramente più espressiva.
Ma le due panoramiche cinematografiche più convincenti (e utili alla “causa”) sono stati i due focus sul rapporto tra Omosessualità e Religioni (proprio TUTTE le religioni e, a livello di tolleranza, a quanto pare, non se ne salva una) e quella sull’Omofobia dal sottotitolo (perfetto) “l’odio mangia l’anima”. Ma si può dire che questi due temi abbiano travalicato i confini di queste panoramiche e invaso pacificamente molte pellicole del Festival. Ricordiamo Children of God e Prayers for Bobby, un film, quest’ultimo, che tutti i genitori (sia quelli che hanno accettato la "diversità" dei propri figli sia quelli che di strada da fare ne hanno ancora parecchia) dovrebbero vedere, con una Sigourney Weaver da paura che questa volta se la deve vedere con l’Alien (dell’omofobia di stampo religioso) che si annida dentro di lei.
Ma sono forse tre i titoli sui quali occorrerebbe riflettere: tre opere bizzarre, pastiche di generi cinematografici tra i più disparati che ricalcano pedestremente (in senso buono) uno per uno tutti i topoi classici dei generi ai quali si ispirano, tre pellicole guarda caso tutte statunitensi: Bitch Slap, A Far Cry From Home e Zombies of Mass Destruction. La prima è una divertente miscela di azione e thriller che “puzza” di Quentin Tarantino e Russ Meyer da lontano un miglio; la seconda (diretta e interpretata da Alan Rowe Kelly) è un corto che pare una versione gay di Non aprite quella porta o Le colline hanno gli occhi; l’ultima è invece una sorta di rivisitazione di La notte dei morti viventi, in cui gli zombies del titolo hanno la pessima idea di uscire dalla tomba proprio il giorno in cui un ragazzo deve fare coming out con la propria madre. Queste tre opere, che si rifanno ai classici ma giusto il tempo per scardinarne le direttive base, diventano quindi metafore e allegorie di mondi e realtà bigotti (troppo vicini ai nostri per non farci preoccupare) mossi da un’omofobia tutt’altro che latente, ma folle e delirante.
Giorgio Ghibaudo