Massimo Ghini: sui tacchi senza imbarazzo

  

di Gian Paolo Polesini
Il Vizietto, 1978. Ve lo ricordate quel film? Un cult movie irremovibile da qualunque memoria di bipide umano, anche poco cinefilo. Ugo Tognazzi era Renato, Michel Serrault, Albin. La coppia di fatto agiva nella “Cage aux Folles” di Saint Tropez, una sorta di gabbia delle checche dove pittoresche drag queen danzavano con blanda leggiadria. Jean Poiret scrisse la comedy cinque anni prima, infilandola sul palcoscenico dove rimase ben incollata almeno fino a quando il cinema la rapì. Serrault sguazza dentro Albin sin dal debutto scenico e il successivo trasloco cinematografico fu una naturale conseguenza artistica. Il grande Ugo, al contrario, entrò in campo dalla panchina, chiamato a scaldarsi per dare il cambio a Poiret. Scavalcando epoche e atteggiamenti mutati, gli omosessuali della Côte d’Azur si ripigliano il proscenio, pur con facce, atteggiamenti e boa di struzzo diversi. Massimo Ghini e Cesare Bocci hanno stappato champagne ieri sera al Rossetti di Trieste per le cinquanta repliche de La Cage aux Folles, musical di sana derivazione originale, «senza snaturare il capostipite, così perfettamente oliato e senza un filo di ruggine», precisa Bocci, il Mimì Augello del Commissario Montalbano, nonché l’Antonio Ceppi di Elisa di Rivombrosa, due delle tante maschere dell’attore marchigiano. Ghini è rintanato in un bar di piazza Unità, a poche ore dalla prima triestina. «La bora non fa bene a uno come me dal respiro africano», dice. E s’informa a quanti chilometri l’ora soffia quando è nera. Più meno come una vecchia Panda lanciata a tutta velocità. «Ah, però». Il fattore meteo non regge molto il dialogo quando sul piatto fumante c’è un Massimo Ghini che, per copione, passeggia con tacchi alti e guêpière, atteggiamento all’apparenza stridente con l’aplomb di tombeur de femmes stampato addosso all’attore romano. – Quindi, Ghini, come ci si sente truccato da femmina? «Un leggero imbarazzo iniziale svanito del tutto dopo un paio di repliche. Il mio timore, che andava ben oltre al secco travestimento, si era concentrato sulla difficoltà di rendere credibile un gay senza scivolare nella macchietta». – Albin lo ha voluto o lo ha subìto? «Allora. Agli albori del tutto avrei dovuto condividere il palco con un altro collega, il quale aveva già messo gli occhi su Renato. E a me non restava grande scelta. La convinzione di azzardare è arrivata con calma, non certo dieci secondi dopo la proposta. Poi è arrivato Cesare (Bocci, ndr) e a me è rimasto Albin, col quale – peraltro – avevo già stretto un’ottima amicizia scenica. In un certo senso l’ho voluto, ecco. E adesso me lo gioco come voglio». – Bocci, lei ha visto il film proprio nel 1978? «Eh sì, stavo studiando all’università di Camerino. Sfido chi non rimase folgorato. Negli anni ho fatto il bis, il tris, insomma, lo si può rivedere venti volte». – Il suo Renato è tanto diverso o molto simile a quello di Tognazzi? «È il mio. Se avessi scelto la clonazione mi sarei tagliato i polsi da solo». – Ghini, nei Settanta le coppie di fatto erano pura utopia, quarant’anni dopo, oplà, la pochade centra in pieno uno dei tanti bersagli sociali difficili da colpire. «Non è fantastico? I soliti scrittori illuminati. Hanno una vista pazzesca, nemmeno Superman. Divorano stagioni e sono destinati all’infinito. Nel ’78 nessuno mai avrebbe fatto le pulci a un’opera così travolgente. Risaltava l’intrigo comico, mica due vecchi gay con un figlio da spedire all’altare. In Francia, al tempo, erano molto e molto più avanti di noi. Riuscivano a intravedere la denuncia. Noi assolutamente no. Si sganasciava e basta». – A un certo punto lei e Bocci vi baciate in bocca. Percepite degli imbarazzi dal pubblico? «Macché, anzi. Di solito è un boato. E di questo dobbiamo essere grati alla fantastica alchimia del teatro. Riesce a sminuzzare i muri, che la vita, a volte, vede come insormontabili». – Ragazzi, tirando le somme. La risata rimane così com’è, allegra e pulita, però la riflessione diventa acuta e, stavolta, non resta ai margini. «Con onestà – rivela Ghini – il pubblico entra al rallentatore nel meccanismo. Mancanza d’abitudine a interagire live con due personaggi ben lontani dagli stereotipi televisivi. Appena scatta l’empatia, alè, è partecipazione completa». – Problemi con l’Arcigay? «Anzi, siamo la materia prima di molti blog. E nessuno che ci manda in malora. Il nostro rispetto è anche il loro rispetto».


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