Pride
Attorno mezzogiorno di sabato 7 novembre 2020, la notizia diventa ufficiale. BIDEN BEATS TRUMP.
Pochi minuti dopo l’annuncio, nel Bronx, alcuni automobilisti cominciano a suonare i clacson. Altre persone si affacciano dalle finestre dei palazzi munite di pentole e posate per fare rumore, come facevano durante la pandemia per ringraziare i first responders.
Quella parte di America – che è stata sotto pressione a fuoco lento per quattro lunghi anni – esplode di gioia.
A scaldare l’atmosfera è complice anche una giornata d’estate nel bel mezzo dell’autunno. Più di 20 gradi centigradi. A New York City e in tutte le principali città degli States centinaia di manifestazioni spontanee celebrano la vittoria del neo Presidente eletto.
Fuck Donald Trump
Times Square, la piazza del capitalismo, si riempie di persone che tirano un sospiro di sollievo. Senza darsi appuntamento, si ritrovano assieme a ballare le note jazz soul di un signore con la pianola. Aumentano il volume degli stereo che trasmettono “Fuck Donald Trump”, la canzone del rapper YG. Sconosciuti si scambiano un sorriso, si avvicinano e si parlano. Gruppi di giovani in bici sfrecciano per le strade bloccate dal traffico esibendosi in impennate di contentezza. I passeggeri escono dai finestrini delle macchine mostrando i cartelli “BIDEN HARRIS”. I giornalisti inviati da tutto il mondo si precipitano muniti di cellulari, microfoni e treppiedi per commentare quello che sta accadendo e intervistare i passanti.
Per un attimo la festa sembra fermarsi quando un uomo con la bici si ferma nell’unico spazio vuoto della via. Mette i piedi per terra, prende un grosso respiro, e con tutta l’aria che ha nei polmoni urla un avvertimento alla folla: “Prepare To Defend Yourself From Trump Revenge And The Alt-Right”. “Preparatevi a difendervi dalla vendetta di Trump e dei gruppi di estrema destra”. Poi risale sulla sella e se ne va. E la festa continua.
Liberazione
Afro-americani, omosessuali, immigrati, donne, giovani. Sono le minoranze a celebrare questo momento. Espongono in aria cartelli di protesta e sollievo. Sventolano di nuovo le bandiere americane, messicane, honduregne, arcobaleno, transgender.
Emozionato dalla gioia che pervade la storia e le strade, Naseer mi dice: “It seems to be in a gay pride!”. È vero, la sensazione è proprio quella: appartenere ad una comunità più grande, festeggiare il coraggio di uscire finalmente allo scoperto, ballare per scollarsi di dosso tutto il buio del passato. È una liberazione, è l’esplosione del cuore. Perché avevamo incominciato a intravedere il rischio contro cui il mondo stava andando addosso, e per una notte ci sembra che l’abbiamo scampata.
Polarizzazione
Non è un caso che siano le città ad esplodere di gioia. Dagli anni ‘60 ad oggi, in America la polarizzazione degli elettori in politica è coincisa con il loro allontanamento sul territorio. I democratici – dei quali fanno parte larghe porzioni delle minoranze – si sono progressivamente concentrati nelle città. Mentre i repubblicani si sono raggruppati nelle zone rurali meno densamente abitate. Chi si sente minacciato dall’omologazione si rifugia nelle città. Il diverso si allontana il più possibile da dove le cose continuano ad andare come sono sempre andate.
Casa- Per Casa
Anche nei piccoli paesi c’è bisogno di un gay pride, c’è bisogno di una festa dove si mangiano le cucine dell’altra parte del mondo, c’è bisogno di stranieri che raccontano cosa succede nei paesi da cui arrivano, c’è bisogno di transessuali che spiegano cosa significa sentirsi prigionieri del proprio corpo, c’è bisogno di persone di colore che elencano tutti i soprusi subiti per via della loro pelle, c’è bisogno di donne che smaniano di offrire la loro visione alternativa di potere.
Se nel futuro non saremo in grado di accogliere più di tutto questo, ci divideremo in tanti mondi paralleli (reali o virtuali) che non saranno più in grado di parlarsi.
Alessandro Casiraghi
Foto dell’autore
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