Telecamere nella darkroom: cosa c’è dietro allo scoop?

  

Di Gabriele Piazzoni

Segretario nazionale Arcigay

 

I mass media, attraverso i loro flussi di informazioni, sono senza dubbio uno specchio della realtà. E anche quando il loro racconto – in buona o cattiva fede – forza o manomette la realtà, in quella manomissione sta comunque un aspetto, quello della cultura che produce quell’aberrazione, che vale la pensa intercettare e discutere. A partire dall’ormai famigerato sevizio delle Iene, la comunità lgbt  è diventata bersaglio di un’operazione mediatica che nella furia di produrre scandali ha fatto precipitare nel medesimo calderone cose molto diverse tra loro, incatenate in una narrazione diffamatoria, piena di pruderie e immagini rubate, che a molti è sembrata confezionata ad hoc, ambiguità incluse, per colpire l’Unar e quella larga fetta di associazionismo che si occupa di contrasto alle discriminazioni. Presunti reati, condotte lecite, allusioni sospese e un morboso voyeurismo sono stati miscelati tra loro in un racconto a tinte forti e piene di compiacimento  che ha ubriacato l’opinione pubblica, impedendole di scindere i  comportamenti realmente censurabili dall’inviolabile libertà personale.

Proprio chi lavora con i mass media dovrebbe sempre tener presente l’impatto su larga scala che hanno le informazioni che percorrono quei canali e  il pericolo che messaggi fraintendibili diano il via a vere e proprie campagne di odio nei confronti di individui o gruppi. Fatti e relative responsabilità, se incontrano un uso spregiudicato delle parole e dei termini, scivolano facilmente nell’immaginario collettivo dalla sfera individuale a quella comunitaria e creano pericolose generalizzazioni, sciagurate se più o meno consapevolmente rafforzano discriminazioni già in essere. Quando poi uno dei più importanti quotidiani nazionali  pubblica un lungo reportage sulle abitudini sessuali di un gruppo di adulti consenzienti, trasformando quelle abitudini private e del tutto legittime in fatti di interesse pubblico, raccontati col tono della denuncia,  allora il livello di attenzione va  necessariamente aumentato. La stampa inspiegabilmente sente il bisogno di raccontare le abitudini sessuali di alcuni gay, rappresentandole come estreme, con un tono che non è chiaro se voglia porre l’accento sui rischi sanitari connessi a certi comportamenti oppure più in generale impartire la sua paternale sulla sessualità “per bene” e “per male”, con buonapace dei numerosi incisi con cui ci si vuole mettere al riparo dalle generalizzazioni, che però sono l’esito più scontato di quell’articolo.

Se l’intenzione del Corriere fosse stata la prima, possiamo dire che il mezzo, il taglio e lo stile dell’articolo non risultano idonei al fine. Non serviva il fiuto investigativo dei cronisti per scoprire che il preservativo è ancora in molti casi una chimera: lo dicono le associazioni, le istituzioni, perfino gli stessi produttori dei preservativi. Da sempre. Finalmente lo ha scoperto anche il Corriere. E d’altronde le persone che il cronista ha incontrato hanno certamente frequentato scuole in cui non si pronuncia nemmeno la parola preservativo, e visto programmi televisivi in cui si vende di tutto e si rappresenta molto sesso, ma guai a veder anche solo l’immagine di un preservativo. E anche sul Corriere è più facile trovare una pagina intera acquistata dagli amici di Dell’Utri per mandargli i saluti in  carcere piuttosto che una campagna sulla salute sessuale. La storia, ahinoi, ce lo dimostra.

Se invece lo scopo dell’articolo era quello di moralizzare una comunità demonizzandone le abitudini sessuali, l’operazione del Corriere è allora culturalmente e politicamente  inaccettabile.  Nell’articolo, il giornalista ha letteralmente grufolato nelle più intime pieghe della vita privata di privati cittadini per riferire circostanze e dettagli circa le loro pratiche sessuali che riguardano solo loro e che sembrano avere una rilevanza giornalistica soltanto perché questi privati cittadini sono omosessuali. Ci domandiamo se il Corriere avrebbe mai pubblicato un articolo analogo, basato sulla testimonianza  di un “giornalista” infiltrato nella casa di qualche benestante professionista milanese-senza alcuna carica politica o ruolo pubblico- per riportare storie di festini privati compiuti fra adulti liberi e consenzienti. Quale sarebbe stato il suo valore giornalistico? Sarebbe apparso come un articolo moralistico e intriso di voyerismo morboso, appunto. Se a questo ci aggiungiamo anche il fatto che il gruppo “attenzionato” in questo articolo sia di per sé già oggetto di discriminazione e pregiudizio, la sensazione che l’ intera operazione rappresenti una indebita e grossolana moralistica generalizzazione si rafforza sempre di più. Il rischio è che così facendo si vada, anche senza volerlo, ad alimentare una campagna d’odio, una caccia alle streghe che pensavamo retaggio del passato.

Cari professionisti dell’informazione, non ci spingerete sulla strada del moralismo, non ci farete desistere dal condurre con fermezza la nostra battaglia per i diritti e la libertà di tutti, compreso quella di trascorrere  50 anni con una persona  e allo stesso modo quella  di cambiare 10 partner al giorno. Continuate nella giusta opera di denuncia di fatti e misfatti di cronaca, ma fatelo ponendovi le stesse regole – dal rispetto della privacy all’interesse pubblico – che usate per tutte le altre materie. E magari dateci anche una mano, sostenendo le campagne di sensibilizzazione per una sessualità consapevole ed informata: la società tutta ne beneficerebbe.